È sempre più… Ortigara!

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    Mio nonno Bepi, invalido di guerra, due ferite e una Medaglia di Bronzo, si svegliava di soprassalto nel cuore della notte, urlando: sognava di andare ancora all’assalto sull’Ortigara. Io ero un bambino e quel nome mi sembrava davvero terribile se faceva tanta impressione a mio nonno, un uomo pacifico e buono che tutte le sere leggeva per più di un’ora il breviario romano, in latino. Nomi come Grappa, Pasubio e Ortigara venivano pronunciati quasi sottovoce in famiglia, con un misto di sacralità e di rispetto. Sarebbe successo anche con la Julia e il suo calvario in Russia.

    La storia dell’Ortigara dovrebbe essere inserita nei testi scolastici e compresa nelle uscite di classe come indispensabile lezione di pedagogia civile e morale. Perchè altrimenti non si comprende cosa significa sacrificio e senso del dovere, concetti vuoti se non vissuti. Ma, in contrapposizione a questi sentimenti che erano della stragrande maggioranza dei nostri soldati, la lezione di storia non ci risparmia l’inadeguatezza di tanti generali che facevano la guerra a tavolino e litigando fra loro caparbiamente mandavano a morire migliaia di uomini per conquistare posizioni imprendibili e indifendibili. E con le stesse strategie, ripetitive, senza speranza.

    Quella terra di nessuno che era il vallone dell’Agnellizza, chiamato vallone della morte, vedeva ogni giorno la recita dello stesso spettacolo: i nostri battaglioni che si avvicinavano alle pendici della montagna, gli austriaci che dalle trincee, dalle caverne, dagli anfratti li falciavano con le mitragliatrici, i mortai e le artiglierie che sparavano dalla Valsugana e dalla Folgaria. Quando una quota era conquistata veniva subito ripresa dal nemico che impiegava ogni mezzo: granate, gas asfissianti, bombe a mano: così, per tutto quel tragico giugno 1917.

    Fino al giorno 25 quando, dopo l’ultima strage i nostri comandi considerarono persa la battaglia dell’Ortigara. Era costata la vita a quasi 24mila uomini, metà dei quali alpini. Solo nell’ultimo giorno di disperati attacchi ci furono 5.969 morti, senza contare i feriti e i dispersi. I 22 battaglioni alpini erano stati più volte decimati e ricostituiti, erano state impiegate anche le riserve, mandati all’assalto rincalzi senza alcun addestramento. Da allora questa montagna è il simbolo del martirio degli alpini e ogni anno ne coinvolge sempre di più. Di quei Caduti, di quei sopravvissuti è stata raccolta l’eredità e la memoria. Ecco perché non si sale impunemente all’Ortigara.

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    Percorrendo la tortuosa e accidentata strada a fondo battuto che i genieri austriaci dedicarono al principe della Corona Otto d’Austria, si vedono ancora i resti di appostamenti, costruzioni, protezioni a secco, tutta una serie di acquartieramenti. E, man mano che si sale, tutt’intorno il terreno è sempre più accidentato, disseminato da buche delle granate italiane, una terra bruciata, senza alberi, rimasta così da allora. E sulla cima le poderose trincee scavate nella roccia, le gallerie che portano ai nidi delle mitragliatrici. Il vallone dell’Agnellizza ora è coperto dai mughi che hanno steso un pietoso tappeto su quella desolazione, ma, a guardarlo bene, rivela un terreno sconvolto dal quale spunta qua e là un pezzo di reticolato, una lamiera arrugginita.

    Domina la cima la sagoma della Colonna Mozza, accanto alla quale gli alpini si sono raccolti in un grande abbraccio: una trentina di vessilli, tanti gagliardetti, i gonfaloni di Enego, di Foza, Gallio e Schiavon, quello della Regione Veneto è accompagnato dall’assessore Elena Donazzan. Ci sono lo stendardo dell’Associazione dei veterani di Slovenia (per la prima volta sull’Ortigara) con il gen. Iamez Cavar e il colonnello Fedia Vanicar già addetto militare a Roma, una pattuglia degli Erzherzog Rainer di Salisburgo e dei Tiroler Kaiserjäger di Jenbach. Entra nello schieramento il nostro Labaro scortato dal presidente Perona, dal col. Sfarra comandante del 7° Alpini e dal Consiglio Direttivo Nazionale; gli rende gli onori un picchetto armato del 7°.

    Sul piccolo spiazzo dove fanno corona gli alpini è allestito l’altare da campo per la celebrazione della Messa che sarà officiata da don Rino Massella, cappellano della sezione di Verona (la sezione che ogni anno con quella di Asiago e Marostica organizza il pellegrinaggio) affiancato da mons. Bruno Fasani e dal cappellano sloveno Milan Pregelj. È stata una concelebrazione bilingue, che non stonava affatto in quel contesto di bandiere diverse in un luogo che fu di tragedia e di morte. “Non avevamo nemici, solo avversari”, ha detto don Rino all’omelia. “Siamo fratelli”.

    Ha preso lo spunto dalla grande pagina del Vangelo che racconta di Gesù che insegna nella sinagoga della sua Nazaret, della sua normalità che suscita scandalo, incomprensione se non addirittura fastidio. In contraddizione, oggi come allora, in una società che crede solo nel denaro e nel potere, indifferente nei riguardi di chi parla di amore e di speranza. “Ma profeti possiamo essere anche noi – ha concluso – con l’esempio d’una vita vissuta bene, per quella via stretta che è quella della Croce”. Conclusa la Messa, alpini, vessilli, gagliardetti e bandiere si sono trasferiti al cippo austriaco, dove sono stati resi gli onori ai Caduti, ed è stata deposta una corona al suono del “Silenzio”.

    Poi tutti a valle, per tortuosi percorsi, lungo la conca dell’Agnellizza piena di storia, di eroismi estremi, di umanità violentata. Al Lozze, dove attendevano centinaia di persone e numerosi sindaci, c’è stato un commovente fuori programma: all’interno della chiesetta dedicata ai Caduti gli alpini vicentini avevano posto, coperto da un tricolore, un quadro con la foto di Matteo Miotto, ucciso in Afghanistan. A scoprirlo sono stati i genitori di Matteo, Ferdinando e Anna. Non ci sono stati discorsi, bastava lo strazio dei genitori e la commozione del generale Primicerj e del nostro presidente Perona.

    Un abbraccio ha detto molto di più delle parole. Al termine della Messa celebrata dal cappellano del 7°, don Angelo, il gen. Primicerj ha portato il saluto degli alpini in armi, ha parlato della Taurinense che sta partendo per l’Afghanistan e della Julia che darà il cambio a marzo dell’anno prossimo, ed ha concluso con la vicinanza affettuosa fra alpini in armi e in congedo e i valori comuni che ci uniscono in un’unica famiglia. “L’Ortigara sarà sempre il punto di riferimento degli alpini!” – ha esordito il presidente Perona – Qui veniamo in umiltà, e la cosa più bella è trovare le delegazioni degli altri Paesi, austriaci e sloveni: i nostri morti possono vivere una giornata di gioia”.

    È risalito alle origini dell’Associazione per dire che nulla è cambiato, che gli alpini in armi sono i degni eredi di coloro che hanno fondato l’Associazione, che sono la continuità. Ha ricordato la sua intensa settimana: all’esercitazione al Falzarego, a Sedico, nel bellunese, al museo del 7° Alpini che conserva un sasso raccolto a Cima Vallona, macchiato dal sangue dell’alpino Armando Piva, poi nel Trevigiano, a visitare uno degli otto campi-scuola di Protezione Civile per ragazzi che il Dipartimento ha affidato all’ANA. E infine a Monte Tomba, ad inaugurare un mosaico alla chiesetta dei Caduti. “Questo è il mio ultimo pellegrinaggio sull’Ortigara da presidente nazionale – ha detto con commozione mentre dagli alpini saliva un applauso – ma altri verranno dopo di me e riprenderanno il cammino con gli stessi valori”. E mentre l’applauso continuava il generale Primicerj gli si è avvicinato e lo ha abbracciato.

    Giangaspare Basile