“La luce dell’Adamello”, dono di pace

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    Uno dietro l’altro, passo dopo passo, respiro dopo respiro, camminano sul sentiero che porta a Pian della Vegaia. Le gambe sentono la fatica, ma si tira dritto. C’è qualcosa che spinge questi pellegrini, alpini e non, a superare le difficoltà, la stanchezza e, spesso, l’impreparazione fisica. Occorre arrivare lassù, occorre farlo non tanto per portar a compimento un’impresa sportiva.

     

    Non si tratta di conquistare una cima, ma di testimoniare nella fatica l’attaccamento ai valori che i nostri Padri ci hanno trasmesso. Si tratta di confermare quelle virtù che spesso vengono proclamate ma che gli alpini preferiscono vivere concretamente per sentirsi davvero “degni delle glorie dei loro Padri”. Gli alpini conoscono la fatica, sanno che nulla si ottiene veramente se non lo si è conquistato. E sanno bene che solo fidandosi l’uno dell’altro potranno raggiungere qualunque obiettivo.

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    Il pellegrinaggio in Adamello, da tanti anni, è testimone di tutto ciò: diverse le colonne, diversi i percorsi, alcuni più lunghi di due o tre giorni, altri più brevi. E si cammina in fila, lo sguardo basso segue il passo di chi precede, a tratti il respiro si fa più corto, lo zaino sembra pesare di più eppure si continua fino al ‘traguardo’. “Il significato profondo del pellegrinaggio in Adamello non sta nella lunghezza del percorso che le colonne, versante trentino e versante camuno, compiono per ritrovarsi alla Messa del sabato.

    Non sta nella fatica spesa o nel numero dei pellegrini, ma nella qualità del ricordo. Partendo dalla sacralità di questi luoghi, che rappresentano le radici della tradizione alpina, troveremo il coraggio per portare il nostro zaino, e quando il peso ci sembrerà insostenibile, allora sarà il ricordo dei Padri a renderlo meno greve. Poiché nel nostro cuore seguiremo ancora una volta quella voce che viene dall’Ortigara, quella voce che con vigore ci sostiene: “per non dimenticare”. Così il Presidente Perona ha parlato sabato, al Pian della Vegaia, nella val del Monte, laterale della val di Pejo che durante la grande guerra ospitò il quartier generale dell’esercito imperiale.

    Poco distante, a Punta San Matteo, quota 3.678 metri, si svolse la famosa battaglia nella quale si distinse il giovane capitano Arnaldo Berni, Medaglia d’Argento al Valor Militare. Promosso a capitano per meriti di guerra, era comandante della 307ª compagnia del battaglione Skiatori Monte Ortler; negli ultimi mesi del conflitto si trovava con i suoi uomini nella zona del Gavia per la difesa del San Matteo che aveva conquistato con un’azione alpinistica ardita e al limite delle umane possibilità.

    La fortificazione, tuttavia, rimase ben poco nelle mani degli italiani: dopo una ventina di giorni, gli austriaci la assaltarono e la ripresero. Era il 3 settembre 1918, nel pomeriggio di una giornata pesante di nebbia e di presentimenti, il Capitano Berni, animato da quel senso del dovere che pare essere oggi un culto tanto antico, quasi dimenticato, cadde durante l’attacco che portò alla riconquista della vetta da parte degli austriaci. Il suo corpo non venne mai ritrovato, riposa ancora oggi lassù, custodito dai ghiacci del San Matteo, montagna simbolo di quel dovere per il quale Arnaldo Berni era vissuto.

    Anche di questo ha parlato il vice comandante delle Truppe Alpine, gen. D. Fausto Macor, alla cerimonia conclusiva, domenica a Cogolo. Ricordando che i nostri Padri si dimostrarono pronti a qualsiasi sacrificio pur di realizzare quell’idea d’Italia che aleggiava nella mente di ognuno. “E’ vero che molte cose sono cambiate dal 1915-18 ad oggi; il mondo non è più quello del capitano Berni, ma i principi che hanno guidato la sua azione sono stati quelli della disciplina, fermezza, ordine, rispetto verso i subordinati. E sono gli stessi principi che valgono oggi per i nostri alpini e soprattutto per i nostri ufficiali e sottufficiali impegnati nelle operazioni in Afganistan, in Kosovo o in Libano come per quelli impegnati in “strade sicure”, o per quelli che ogni giorno fanno l’alzabandiera nelle nostre caserme e cercano di migliorare l’operatività dei loro battaglioni e dei reggimenti”.

    E, in sintonia, ha parlato il vice presidente vicario Adriano Crugnola: dal senso del dovere, dalla fratellanza e dall’amicizia scaturisce la responsabilità e solo facendo proprie queste virtù si può ancora oggi, nonostante tutto, sperare in un’Italia migliore. Mons. Bruno Fasani, direttore de L’Alpino, ha celebrato la Messa a Cogolo al termine della sfilata di domenica: “In questa cattedrale di montagne, senza tempo e senza confini, gli alpini vivono concretamente le virtù cristiane e restituiscono a questa Italia una speranza”.

    Forse quel luogo più sincero, dove i doveri vengono prima dei diritti, dove l’io si trasforma in noi, esiste davvero. Forse questo sforzo collettivo di carità e fratellanza è stato già compiuto. Perché gli alpini hanno una fede semplice, concreta, diretta; una fede che non si perde in tante cerimonie, ma è vissuta giorno per giorno. E questo spirito di fratellanza lo si è voluto concretizzare consegnando una lanterna con la luce benedetta da Giovanni Paolo II nell’anno del Giubileo: una piccola fiammella partita dall’altare del Papa in Adamello, discesa fino a valle e donata ai rappresentanti delle delegazioni estere di Francia, Germania, Russia e Repubblica Ceca come dono di fraternità e di pace.

    Si conclude così, il 49° pellegrinaggio in Adamello, organizzato dalla sezione di Trento: non un insieme casuale di persone, non il semplice piacere di aggregarsi, ma la dimostrazione reale di un’esigenza che, unendoci, ci fa sentire vivi, ci fa sentire fratelli. “Ecco perché – ha concluso Mons. Fasani – se Gesù rinascesse oggi, sono certo, prenderebbe la tessera dell’ANA”.

    Mariolina Cattaneo