Il coraggio di riabilitare le vittime incolpevoli

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    Caro direttore, la data del 24 maggio di questo 2015 ha dato l’avvio alle celebrazioni del centenario della Grande Guerra. C’è il pericolo che si usino parole sbagliate. Un conto è festeggiare e un altro è celebrare un evento catastrofico per il prezzo pagato in vittime militari e civili. Dopo cento anni ci si aspetta che la storia consegni intera la verità che è facile falsare, anche solo con le omissioni. Ci sono fatti dei quali non si parla.

    Fra i tanti episodi di valore attribuibili alla nobiltà e allo spirito di sacrificio di numerosissimi eroi riconosciuti, c’è anche la storia delle vittime delle fucilazioni operate spesso ingiustamente anche per quelle che erano allora le giustificazioni addotte dagli alti comandi. Non propongo una discussione sulle responsabilità di Cadorna, di Emanuele Filiberto di Savoia, di Badoglio, di Cappello o del fucilatore Graziani per i fatti di Caporetto.

    Mi affligge sapere che per le vittime incolpevoli di fatti scellerati, non c’è stata alcuna riabilitazione, nonostante le istanze numerose inoltrate anche ai Presidenti della Repubblica. Indico, ad esempio, la fucilazione degli alpini di Cercivento: il caporal maggiore Silvio Gaetano Ortis, 25 anni, di Paluzza – dei caporali Basilio Matiz, 22 anni, di Timau, e Giovan Battista Corradazzi, 27 anni, di Forni di Sopra, e del soldato Angelo Massaro, 28 anni, di Maniago.

    Assassinati solo per aver chiesto di attuare una strategia contro le postazioni nemiche che, praticata successivamente, ha dimostrato essere talmente corretta, che l’attacco raggiunse il successo senza vittime. Non è bello che siano soltanto i gruppi alpini locali a celebrare la memoria di questi giovani che non furono meno eroici dei commilitoni caduti in combattimento, e che i veri colpevoli furono i comandanti che tentavano di nascondere la loro incapacità. Altro episodio crudele, perpetrato dal fucilatore Graziani che prese a bastonate il fante Alessandro Ruffini di Castelfidardo (Ancona). Passava un reparto che tornava lacero e sbrindellato dalla Carnia; il generale vide il soldato che lo salutava con un mozzicone di sigaro in bocca, esausto dopo sette giorni di marcia, e la prese per un’offesa. C’era il sindaco di Noventa Padovana, che difese il malcapitato: «Non si tratta così un soldato dell’Esercito italiano!».

    Graziani rispose: «Io dei soldati faccio quello che voglio» e lo dimostrò subito, facendo fucilare sul posto il fante Ruffini. Processato a fine guerra per abuso d’autorità, Graziani fu assolto e divenne anzi un eroe per il fascismo. I processi per ammutinamento o per codardia sono stati migliaia e almeno 750 le fucilazioni eseguite. Impossibile dettagliarle in una lettera, ma è lecito affermare che il Piave, fiume sacro alla Patria, fu arrossato per difesa, anche dal sangue dei fucilati soltanto perché sbandati e trovati senza moschetto. Usati paradossalmente come strumento estremo di difesa, liberi di scegliere se farsi ammazzare dal nemico o dal plotone di esecuzione dei Carabinieri del Regio Esercito.

    La retorica della Vittoria, quella che ha scolpito nelle migliaia di lapidi che adornano i monumenti il proclama di Diaz, ha favorito la rimozione di questi episodi. Oggi ci sono, solo nella memoria, delle lapidi abbandonate di questi poveri soldati, uccisi due volte. La prima dal piombo italiano, nella disperazione della tragedia quale è stata la disfatta di Caporetto, la seconda dall’indifferenza di chi pur avendo il potere della riabilitazione non ha fatto niente.

    Vorrei anche che l’Ana si distinguesse, affrontando con la forza morale di cui dispone, il problema di una riabilitazione. Dell’Ana conosco solo la sensibilità e il coraggio degli alpini che ogni anno si recano a rendere onore a questi ragazzi arrivati poco più che ventenni al Paradiso di Cantore. Anche se dimenticati dai più, ci osservano e ascoltano gli squilli di tromba, gli inni e tutti quelli che pronunceranno, davanti ai monumenti, i discorsi celebrativi della Grande Guerra.

    Maurizio Mazzocco, Legnago (Verona)

    Caro Maurizio, grazie per questa lettera, con la quale intendo aprire un dibattito tra i nostri lettori. Un dibattito sereno, ma anche intellettualmente onesto. Sono tanti gli alpini caduti sotto il fuoco amico e non necessariamente in azioni di guerra. Sappiamo che ciò avvenne per cause diverse, non tutte nobili. Ma proprio la ricerca storica accurata e il coraggio di raccontarla, ci aiuterà a capire che non tutti furono dei disertori. Molti di loro furono autentici uomini di valore, con la testa alta e la schiena dritta. Uomini senza medaglie, che oggi aspettano solo d’essere riabilitati.