Giornali che passione

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    Cosa c’è dentro i nostri giornali? La domanda potrebbe quasi apparire banale, tanto da chiedersi se valesse la pena di dedicarle la ventiduesima edizione del Cisa (il Convegno itinerante della Stampa alpina), che si è tenuta a Trieste. Ma nelle nostre testate (sono 175 quelle sezionali e di Gruppo, oltre, naturalmente a L’Alpino) c’è davvero tutto il mondo delle penne nere, con la sua passione, la sua lunga storia, la voglia di modernizzarsi e, perché no, con qualche eccesso di ingenuità. Un universo che merita di essere esplorato e conosciuto nella sua pienezza, dalle origini.

     

    Un tema, quello storico, che è stato sviscerato nell’arco delle due mezze giornate di incontri, da un ricercatore universitario, il dott. Federico Goddi, che ha dedicato molti mesi allo studio delle nostre testate, dagli albori, ricavandone un ritratto stimolante: un arco di quasi un secolo in cui le testate alpine, oltre che a farsi interpreti della vita associativa, hanno recitato ruoli da protagonisti, adeguandosi alla fase storica ed in alcuni casi resistendo anche a lungo alla censura del Ventennio.

    Lo stesso Goddi, giovane come ricercatore, non ha nascosto di essere rimasto affascinato dal nostro mondo e ha conquistato grandi applausi quando ha concluso dicendo di sentirsi membro della nostra famiglia. La parte più tecnica è stata affidata a due alpini giornalisti professionisti di lungo corso (Andrea Bridda e il sottoscritto) con oltre quarant’anni di giornalismo attivo sulle spalle, nei quotidiani e non solo. Bridda ha svolto un esame puntuale di “come” sono fatti nostri giornali, richiamando l’attenzione all’uso di fotografie di buona qualità, ad una titolazione più delstimolante, ad una grafica e di caratteri più chiari e più grandi (visto che molti alpini non sono più giovanissimi). Io mi sono concentrato più sulla necessità di tenere aperti tutti i canali di comunicazione possibile, di dare spazio (per quanto consentito dalla lunga cadenza delle testate) alla voce dei lettori.

    Da non sottovalutare, poi, che, spesso, all’interno di Sezioni e Gruppi è una sola la persona che confeziona il giornale: sarebbe invece importante che il direttore responsabile avesse un rapporto costante con il comitato direttivo sezionale, mantenendo però la necessaria autonomia. Bridda ed io, abbiamo poi condotto due ore di sessioni di domande e risposte con i nostri colleghi delle testate alpine, da cui sono nati non pochi spunti operativi interessanti. Soprattutto con validi suggerimenti per diffondere le testate alpine anche al di fuori degli ambiti con la penna nera.

    A Bruno Fasani, direttore de L’Alpino, è toccato il compito di tirare le fila dei lavori: in sostanza, un’esortazione al massimo impegno nei giornali alpini, perché la comunicazione rimane un settore strategico. Infine, una nota sui premiati: il Trofeo Vittorio Piotti 2018 per la miglior testata alpina è andato all’eccellente “Baradèll” della Sezione di Como; secondi ex aequo “Quota zero” degli alpini di Venezia (anche stando sul mare si lavora bene da alpini) ed il giornale degli Alpini di Chiesanuova, Gruppo della Sezione di Brescia. “Non pensiate – ha detto infatti mons. Fasani – che un Gruppo debba per forza lavorare meno bene di una Sezione”.

    Massimo Cortesi
    m.cortesi@giornaledibrescia.it


    Un’anima non di carta

    Tra le mille indicazioni e suggestioni riportate a casa dall’ultimo Cisa di Trieste ho recentemente ripensato ad un appunto annotato su un mio quadernino verde. Si tratta di una definizione di Vittorio Brunello “sull’odore di mulo” che è conservato tra i fogli della stampa alpina. La storia centenaria che ho indagato racconta di una “piccola chiesa” che ha avuto la forza di creare oltre centosettanta testate, immaginando molteplici moduli narrativi e linguistici, senza però rinnegare uno spirito comunitario fatto anche di odori del passato (quindi di memoria).

    Nessun fenomeno culturale può infatti aspirare “a durare” senza affiancare all’intento informativo una qualche ambizione formativa. Sin dalle origini della stampa alpina, quest’ultima funzione è stata affermata attraverso due peculiarità: la liturgia dell’Adunata e il credo dei Caduti. Si pensi alla centralità di spazi editoriali quali il “Paradiso di Cantore”, titolo comune a rubriche o singoli articoli in decine di giornali dell’Associazione Nazionale Alpini.

    Sono pagine dedicate ai Caduti che “Ci dicono tante cose, rievocano giorni ed avvenimenti ormai lontani, parlano di Sé e di altri compagni, noti ed oscuri, tutti in forza nel Paradiso di Cantore. E ammoniscono noi, i ritornati, i rimasti, con un accorato accento. Che la voce tremula della campana, che la Chiesetta sovrasta, espande di valle in valle, porta in ogni baita, in ogni casa e dovrebbe portare in ogni cuore: Pace, Pace, Pace!” (Tücc’ün, dicembre 1950). Questa storia non può non essere ricostruita attraverso delle cesure temporali.

    Nella mia ricerca ho rintracciato cinque fasi distinte: gli esordi de L’Alpino prima ad Udine poi a Milano; un secondo periodo in cui nascono le prime testate sezionali che sarebbero state chiuse durante il fascismo; la rinascita del periodo repubblicano (’46-’68) in cui trova grande spazio la dimensione del reducismo; la grande espansione (’69-’90), stagione in cui nascono la maggior parte dei periodici oggi attivi e nella quale è possibile rintracciare la genesi di giornali i cui corsivi sono stati valorizzati anche sulle pagine de L’Alpino (tra gli esempi c’è il Baradèll).

    Il giornale comasco – vincitore del Premio stampa alpina Vittorio Piotti 2018 – con la rubrica degli esordi “Storia della Sezione di Como” rappresenta un esempio di come si possa ricostruire la storia di una comunità locale all’interno di una dimensione nazionale. D’altra parte, la testata nasce in un periodo in cui l’Ana ha le finestre spalancate sul sociale: “Ma una cosa soprattutto ci è di conforto: nei nostri raduni senza alcuna retorica, con il tricolore delle nostre insegne, con il nostro spirito di Corpo, la nostra fede negli ideali della Patria, noi apriamo alla speranza il cuore della gente che ci osserva, applaude non noi ma ciò che rappresentiamo e idealmente ci abbraccia” (Baradèll, settembre 1975).

    Le attività di solidarietà e della Protezione Civile sono il linguaggio comune per tutti i giornali nell’epoca della scomparsa del testimone (dei reduci alpini), ultima delle nostre stagioni. In questo periodo – ancora in corso – è riscontrabile un grande dibattito sull’uso della storia delle guerre mondiali sulle testate di Sezione e di Gruppo (anche a Trieste si è dibattuto molto).

    Agli occhi dello studioso è evidente lo sviluppo di un processo di sintesi tra storia e memoria, ambizioso e affascinante, che potrebbe essere ulteriormente approfondito: “Gli alpini hanno un ruolo importante in questa fase della storia. I quali alpini non sono gli uomini del passato, ma della memoria, che è cosa ben diversa” (Bruno Fasani, Uomini della memoria senza fughe nel passato, L’Alpino, gennaio 2014).

    Federico Goddi