Destinazione Vajont

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    Era il 9 ottobre 1963. Terminato l’addestramento al Car di Boves (Cuneo), nel pomeriggio fummo trasferiti in caserma a Cuneo e più tardi in stazione, dove ci aspettava “la tradotta” per il Veneto, destinazione caserma Monte Grappa di Bassano. Arrivati a Castelfranco Veneto la tradotta si fermò in stazione per dare precedenza ai treni di linea; albeggiava e dalle locandine esposte davanti al bar tabacchi apprendemmo la notizia della tragedia del Vajont e dei moltissimi morti. Capimmo immediatamente che sarebbero stati giorni dolorosi.

    Giunti a Bassano del Grappa fui assegnato alla 50ª batteria mortai; ci fu solo tempo di prendere visione della camerata e di rifocillarsi velocemente, poi l’allarme suonò. Indossammo la tuta mimetica, preparammo lo zaino da combattimento e, dopo l’adunata, salimmo sui camion per Belluno. La mattina dell’11 ottobre eravamo operativi. Ci portarono in un luogo che penso si trovasse prima di Fae-Fortogna. Nessuno di noi parlava, si sentiva solo il rumore dei nostri passi. Alle prime luci dell’alba il disastro si presentò ai nostri occhi: sulla destra, verso il Piave, solo distruzione; sulla sinistra, arrivati al ponte ferroviario sopra al fiume Maè, le rotaie penzolavano, come trecce attorcigliate. Non posso descrivere quel che vedemmo più avanti.

    Era un paesaggio indescrivibile, lunare: il paese di Longarone era scomparso. Ci divisero in gruppi di sei e ci assegnarono un’area, ma scavare era quasi impossibile poiché in molti punti il terreno sotto al fango era roccioso. Più tardi fui mandato dove, presumibilmente, era situato Pirago e i sopravvissuti cercarono di aiutarci, indicandoci i luoghi delle loro abitazioni. Ma scavare si rivelò inutile, poiché non era rimasta traccia delle case; rinvenimmo solo qualche utensile, tutto era tracimato dentro al fiume, che si portava via le macerie.

    Restava il cimitero, anche se così pesantemente danneggiato che i segni del disastro sono ancora oggi visibili su alcune tombe di famiglia. Anche la chiesa aveva subito danni ingentissimi, restavano una navata e il campanile. Successivamente fui assegnato al paese di Fortogna, dove era stato allestito un campo della Croce Rossa per la raccolta delle salme, o di quel che restava di quei poveri corpi, che medici e infermieri cercavano pietosamente di ricomporre. L’impatto fu così forte che pensai di non reggere al compito di aiutare questi volontari, ma poi cercai di farmi coraggio, non potevo cedere… Solo le lacrime possono descrivere le emozioni provate in quei momenti strazianti.

    Il sentimento prevalente era di profonda impotenza, unita a un grande senso di solitudine e piansi a lungo per questo. Tra i tanti, non posso dimenticare, in particolare, quattro corpi, che mi colpirono perché rappresentavano categorie tra le più indifese: un ragazzo e una ragazza di vent’anni e una giovane mamma in attesa, accanto al figlioletto di 5 o 6 anni; il loro futuro si era spento in un attimo. Non potrò mai dimenticare quell’orrore, lo strazio di quei momenti.

    Non vi è giorno della mia vita in cui io non pensi al Vajont e ai suoi morti. Dopo la leva sono tornato in quei luoghi ogni 2 o 3 anni, ma dal 2008 ogni anno mi reco a Longarone, dove ho incontrato persone meravigliose che rivedo con immenso piacere. Non manca mai una visita alla scuola elementare per salutare tanti bambini felici e i loro insegnanti: è con loro che gioisco e, per un attimo, riesco a dimenticare quei terribili momenti.

    Filippo Bonetti
    artigliere alpino, 50ª batteria mortai, 6º reggimento art. mont., brg. Cadore