Adamello, ovvero Alpini

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    Incute timore la Nord dell’Adamello, seppure imbiancata o azzurrata dal sole. Sembra non vi sia accesso, sembra non vi sia neppure una via capace di condurre alla sua sommità. Oltre i tremila. E la sensazione è la stessa, che la si guardi standole poco sotto o che la si ammiri da lontano. Siamo in una regione incantevole delle Alpi Retiche, nella conca del Venerocolo, ai piedi dell’omonimo passo e dell’omonima punta posta lì accanto. Dinnanzi l’Adamello e la più piccola cima Plem, così simili per aspetto che l’una pare la miniatura dell’altro

     

    Poco sopra al lago, su un pianoro, tra le rocce granitiche, sorge il rifugio Garibaldi. Una costruzione semplice che pare essere lì da sempre. Invece, il vecchio rifugio, costruito dal Club Alpino Italiano nel 1893, dorme celato dalle quiete acque del lago. Un paesaggio che evoca armonia. Una musica silenziosa che solo la natura sa comporre. È quassù che si fronteggiarono italiani e austriaci in una guerra di posizioni perse, riprese e riperse ancora.

    Uomini che la fatica della montagna aveva modellato fin da bambini. Giovani eccezionalmente robusti, vigorosi e sicuri. Provvisti d’una straordinaria forza fisica che si rifletteva nell’animo e nella psiche. C’erano giorni in cui occorreva restare con i pensieri ben piantati a terra. Giorni in cui, dopo aver seppellito un compagno ormai divenuto fratello, toccava essere freddi sebbene il cuore bruciasse. Sbrigare le incombenze, studiare le mosse dell’avversario, dormire, consumare il rancio, il più delle volte freddo e scarso. Era la naja in guerra. E bisognava non perdersi d’animo. Fu proprio su queste vette così massicce e paurose che crebbero e si forgiarono uomini come Varenna, Battanta, i fratelli Calvi e ancora Veclani, Materzanini, Rolandi, Bordoni, Pagani. E l’indimenticabile Bonaldi. E Zani di Temù.

    Ufficiali superiori di indiscussa fama tra i quali Giordana, Cavaciocchi e Barco. E quassù sabato 27 luglio, nella chiesetta dedicata alla Madonna dell’Adamello, manufatto risalente alla Grande Guerra, si è celebrata la Messa, per il cinquantesimo anniversario del pellegrinaggio in Adamello. Frutto di un sogno dello scrittore alpino Luciano Viazzi, a lungo perseguito in solitaria, poi abbracciato dal vecio Sperandio Zani, infine da tutti condiviso. Perché i giovani ritrovassero idealmente tutti i ‘veci’ che su quelle vette avevano vissuto e combattuto a lungo. Perché venisse consacrata per sempre, la pace tra vinti e vincitori. La Messa in quota è in ricordo dei ‘veci’ e del presidente Gianni De Giuli a cui è dedicata questa edizione. Spettatori i pellegrini, giunti fino a qui da diversi itinerari. Il più lungo, cinque giorni filati tra le montagne, ha percorso per intero il sentiero numero 1, l’alta via dell’Adamello. Dodici le colonne che hanno risalito i pendii di questo meraviglioso comprensorio.

    Dal versante trentino e da quello camuno. Tra loro c’è chi ha attraversato il Pian di Neve trascorrendo la notte di venerdì al rifugio ‘Ai Caduti dell’Adamello’. Un luogo suggestivo. Quando ancora i piedi poggiano sulla neve e gli occhi si chiudono un poco a contrastare il riverbero del sole sul manto bianco, lo si vede laggiù in fondo abbarbicato alle roccia della Lobbia. Proprio come fosse un prolungamento della montagna stessa. E quando infine ci si porta poco sotto e poi lo si raggiunge passando sulle rocce e salendo i gradini che conducono al terrazzo, è impossibile non commuoversi. Una campana invita il viandante a una carezza. Ne esce un suono che riecheggia tra le cuspidi e le vedrette imbiancate. Tra i picchi e giù fino alla fine dei ghiacci. Come per diffondere un messaggio. Perché chiunque arrivi quassù lascia una parte di sé, la migliore. Eppure se ne va più ricco. Il silenzio del cuore è rotto dal vociare degli alpini. E fra le lobbie rosate, s’accomiata l’ultimo raggio di tramonto. L’ora della cena. Poi la notte. Sono da poco passate le quattro. È ancora buio, si calzano gli scarponi con fare incerto e comincia la marcia. Sul Pian di Neve e sulle creste tutte intorno s’accende a poco a poco una luce, dapprima solo accennata e dai toni freddi che pare dire addio. È invece l’inizio. Il cielo non lascia morire quei riflessi turchini; il chiarore si fa più forte: è l’alba vestita di rosa, dura un istante appena eppure non la si scorda.

    Quel paesaggio lunare è ora fissato negli occhi, nitido e vivo. Ormai è giorno. Il rumore degli elicotteri irrompe nei nostri pensieri silenziosi. Placa il fluire delle emozioni. La meta è là ad attendere i pellegrini, il passo s’accorcia diviene più svelto per giungere prima. Ora dinnanzi alla chiesetta ci sono proprio tutti. E la fatica, i piccoli disagi non sono più neppure un ricordo. Ora gli alpini sono come una famiglia che si ritrova, tra i titani di granito, per un momento di preghiera e di incontro. Tocca al presidente della Vallecamomica Giacomo Cappellini salutarli per primo. Poi il generale Alberto Primicerj, comandante delle Truppe Alpine e in ultimo il presidente nazionale Sebastiano Favero. Ognuno ripercorre a modo proprio, con le parole, lo spirito e il significato di questo pellegrinaggio. In quegli istanti, dalla vetta dell’Adamello, viene spiegato un Tricolore portato lassù da una squadra di alpini in armi.

    La figlia di Gianni De Giuli recita una preghiera in ricordo di suo padre. Emozioni intense si susseguono nell’animo di ognuno. Poi, dopo un attimo di silenzio, ha inizio la Messa e sull’altare ‘da campo’ sono davvero tanti i sacerdoti stretti intorno al cardinale Giovanbattista Re. Tra loro monsignor Angelo Bazzari, erede del beato don Carlo Gnocchi e monsignor Bruno Fasani, direttore de L’Alpino. Difficile immaginare una chiesa più bella di questa. Difficile non scorgere la beatitudine del creato, in ogni elemento attorno a noi. Al termine della Messa fotografie e saluti. Poi l’individuale commiato ai monti e di nuovo zaino in spalla. Suonano gli ultimi rintocchi di campana. Portati dal vento, riecheggiano di gioia stanchi di quei lunghi mesi d’inverno trascorsi in silenzio. Un lungo sciame colorato ridiscende in disordine la val d’Avio fino a Temù per la sfilata, la Messa e le orazioni ufficiali della domenica. Un programma, quello a valle, ricco di eventi che si concluderanno la sera del 3 agosto con un recital sulla Grande Guerra, in scena a Temù. Poi, quando tutto sarà finito, quando anche il cartellino di partecipazione al cinquantesimo pellegrinaggio in Adamello verrà accomodato insieme a quelli degli anni passati, ripenseremo alla ragione che ci ha mosso fin quassù. Siamo tornati per incontrare lo spirito dei nostri vecchi, per masticare quella gioia perduta che solo lo stare insieme è capace di donare.

    La stessa che provarono loro. Erano gli anni Settanta quando vennero ripresi e intervistati gli ultimi adamellini ancora in vita. Ascoltando i racconti, guardando le immagini in bianco e nero, trapelano solo i risultati delle imprese, la buona riuscita di vicissitudini legate a una guerra di tenacia e di abilità. Nulla traspare delle sofferenze che vissero. Nulla dello scoramento che, chissà quante volte, soffocò l’animo. Nulla. Solo il racconto legato a una storia di dovere compiuto, per la Patria. Tuttavia sul finire del filmato, un moto d’orgoglio del capitano Aldo Varenna che, con un sorriso beffardo, accanto allo sguardo compiaciuto e beato del vecchio Sperandio Zani disse con insolita allegria: “le vicissitudine legate all’Adamello furono la dimostrazione che la parola impossibile non esiste. Perché anche lì dove una volta si diceva non si può passare, non si può fare, non si può vivere, si è vissuto, si è passati. Si è fatto quello che si doveva fare”.

    È un insegnamento quello degli adamellini. Giunto fino a noi. Protetto e custodito simbolicamente dalla costiera rocciosa delle alte vette del Venerocolo, dell’Adamello, della cima Plem. Un insegnamento legato al coraggio personale, a una guerra quasi individuale combattuta e vinta perché si scelse di restare uniti nell’affrontare ogni cosa. Anche l’impossibile.

    Mariolina Cattaneo


    CINQUANT’ANNI, IN UN LIBRO

    Era il 1924 quando l’Associazione Nazionale Alpini organizzò il primo pellegrinaggio in Adamello. Allora si chiamava convegno, tuttavia la logistica era pressoché uguale a quella dei raduni moderni. Nel 1929, quando l’Associazione era presieduta da Angelo Manaresi, un’altra adunata alpina si compì su queste eccelse cime innevate.

    Poi passò del tempo, passò la guerra e le miserie che ad essa seguirono. Vennero gli anni Sessanta e su proposta dello scrittore alpino Luciano Viazzi, supportato dall’infaticabile vecio adamellino Sperandio Zani, allora capogruppo di Temù e guida emerita, venne organizzato quello che passò alla storia come il primo pellegrinaggio in Adamello. Era il 1963. E se da principio l’iniziativa non trovò molti calorosi sostenitori, negli anni successivi, quando se ne comprese appieno lo spirito, divenne una delle più importanti celebrazioni associative.

    Tra le cinquanta edizioni, indimenticabile resterà quella del 1968 sul Corno di Cavento. Lassù si rincontrarono e abbracciarono, a cinquant’anni dalla fine della guerra, il colonnello Fabrizio Battanta e il maggiore Alfred Schatz, protagonisti e avversari allora nelle battaglie per la conquista di questa ardita cima. Altra memorabile
    edizione nel 1988, quando monsignor Re, oggi cardinale, il presidente nazionale dell’ANA Leonardo Caprioli e il presidente della sezione di Vallecamonica Gianni De Giuli accolsero un pellegrino d’eccezione, il Santo Padre Giovanni Paolo II. Allora fu scritta una delle pagine più belle nella storia degli alpini camuni: a quota tremila, da un altare in granito realizzato proprio in suo onore, il Papa celebrò la santa messa.

    Queste piccole storie preziose, insieme, ne raccontano una più lunga che dura da cinquanta anni, descritta nel libro edito dalla sezione di Vallecamonica che verrà dato alle stampe solo tra qualche mese, perché in esso sia contenuto anche il racconto di questo pellegrinaggio, che è appunto il cinquantesimo. Il titolo sarà: ‘Adamello 1963-2013. Cinquant’anni di memoria e di fratellanza’. Così, ogni volta che avremo voglia di ritornare su quelle cime, anche quando le nostre gambe non ce lo permetteranno più, ci basterà sfogliare queste pagine e lasciare spazio ai ricordi, alle emozioni. E sarà come allora.