Zona franca

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    Rubrica aperta ai lettori.

    A proposito dell’Afghanistan


    Non credo che i ragazzi che sono partiti per il fronte afgano (e chiamiamolo con il suo nome, accidenti!) saranno da meno di chi li ha preceduti. Certo, forse si sono arruolati per uno stipendio, ma sono pur sempre soldati e lo sanno. Questa delle fasce più basse che si arruolano è comunque cosa comune a tutti gli eserciti professionali. Non di meno, sia gli inglesi che gli americani fanno benissimo il loro dovere e quelli che ho conosciuto io ne sono anche molto fieri. Anche perché c’è il dritto della medaglia: questa è la fierezza che permette loro di riscattarsi da un destino, di perdenti nel peggiore dei casi, o perlomeno con scarse possibilità di contare qualcosa. Mi ricordo quello che mi diceva Wolf, mio conoscente californiano (e che scrive su un suo libro autobiografico). Arruolarsi, per un indiano delle riserve (parla della sua realtà, naturalmente) era un modo per avere soldi, gloria, ma soprattutto rispetto, per poter studiare, per avere un ruolo nella società, e magari un futuro per sé e per i propri figli. Mica poco! Contando che è in cambio della propria vita. Se poi scaviamo nella storia degli eserciti, credo che troveremo pochi casi di volontari completamente idealisti (spesso facenti parte di annoiate caste nobili, oppure figli di una classe agiata che, certo, coltiva valori superiori).
    La storia degli eserciti è fatta soprattutto di gente senza speranza che nei tempi andati erano gente senza terra, quindi senza valore sociale che si riscattava mettendo in gioco l’unica cosa che aveva: la propria vita. Questo toglie valore al coraggio e alla generosità che hanno dimostrato?No di certo.
    Tanto di cappello (alpino), allora. Stringiamoci attorno ai nostri alpini terroni e accogliamoli nella nostra famiglia una volta per tutte: credo che questo gli piacerà e gli farà bene. Se poi qualcuno non ne vuole sapere, pazienza: sono pronto a scommettere che saranno pochi. Comunque sono convinto che nell’addestramento i comandanti debbano anche inserire lezioni di storia del reparto di cui i giovani fanno parte, per incrementare l’orgoglio dell’appartenenza alla specialità.
    Nell’esercito americano questa è prassi normale, spero lo sia anche da noi. Da loro si chiama ‘will and teamwork building’ (costruzione della volontà e del lavoro di squadra) e non viene affatto sottovalutato.


    Vincenzo Di Dato Aosta


    Questa rubrica, si sa, è aperta ai nostri lettori per dibattere su argomenti anche scomodi e controcorrente. Anche quando non sono da noi del tutto condivisi: sono lo spunto per uno scambio di idee che, se fatto in buonafede e con spirito alpino, è sempre utile. Ecco perché pubblichiamo questo intervento.


    Alpini, quale spirito di sacrificio?



    Sono alpino da 16 anni, la naja la conosco bene (dal 6º scaglione ’87) ed ho sempre portato un sincero affetto ai ragazzi che mi arrivavano in Compagnia: erano i più semplici, schietti e meno raccomandati della classe.
    Ma troppe volte si generalizza nel lodare il senso del dovere e lo spirito di sacrificio di chi ha servito nelle Truppe alpine. Sarò volutamente provocatorio col rischio di fare un resoconto solo degli aspetti negativi della naia, ma leggete e forse mi giudicherete cinicamente realista.
    Spediti ad un CAR alpino si arrivava con la testa piena dei trucchetti dei veci.
    Scappatoia n. 1: farsi inviare all’ospedale militare dal quale si può essere riformati o declassati per evitare gli incarichi più pesanti oppure inviati in convalescenza ed arrivare al battaglione con qualche mese di ritardo.
    Scappatoia n. 2: cercarsi un posto da caporale istruttore: routine e considerazione da parte delle reclute e dei Quadri. Se poi bisognava finire altrove, meglio andare al reparto comando di Brigata, al battaglione logistico, all’artiglieria ma certo non al battaglione alpini.
    Noi comandanti di compagnia, si andava al CAR a fare i colloqui con le reclute: queste apparivano terrorizzate dalla prospettiva di finire in fanteria alpina, dove c’è più disciplina, ci si addestra col freddo, si va poco a casa. La metà non si esprimeva e altri cercavano di convincermi della propria attitudine in uffici e magazzini. I rari alpieri volontari erano l’eccezione. Ricordo le telefonate ricevute che imploravano che al rampollo fosse risparmiato sì amaro calice! Frutto di ignoranza e dei racconti ascoltati da chi diceva che la naia l’aveva fatta .
    Poi finalmente arrivava al Battaglione l’attesa linfa: morale sottoterra e rassegnazione a subire ogni ignominia, come predetto dai nonni .
    Scappatoia n. 3: rifugiarsi in infermeria con l’obiettivo di farsi inviare in ospedale e, se la riforma non arrivava, si poteva almeno entrare in quel giro vizioso di licenza di convalescenza, rientro al Corpo, infermeria, ospedale e nuovamente licenza. A volte si perdeva così il 10 di una compagnia.
    Cominciava l’addestramento di base: non era certo piacevole alzarsi presto, sbalzare al freddo, mangiare con la cucina rotabile sotto la pioggia, perdere le nottate in poligono meglio restare al calduccio della caserma: quanti chiedenti visita al mattino! E quando dopo un paio di mesi si convincevano che di stenti non si moriva ed il tempo passava meglio in esercitazione, eccoti il solito maresciallo che ti raccomandava Tizio e Caio per fargli da garzone in ufficio od in magazzino. Dopo tre mesi avevi uno scaglione ridotto al 70 . Finalmente arrivavano le escursioni, che cementavano nei superstiti la consapevolezza che il capitano non era poi così bastardo e che l’amicizia dei commilitoni valeva ormai la pena di coltivarla: il fascino educativo della montagna aveva funzionato ancora.
    C’era poi il congedamento dello scaglione anziano e un altro 20 della compagnia si perdeva negli incarichi di caserma. Quelli che restavano, però, erano finalmente la base solida ed affiatata sulla quale potevi contare fino alla fine; li conoscevi uno ad uno con un rapporto davvero positivo che ti dava molte soddisfazioni. Ad un mese dal congedo avveniva però una metamorfosi involutiva che rendeva abulici e sciocchi validissimi alpini: si montava un’assurda baldoria solo perchè si finiva di servire la Patria cappelli sfigurati alla massa vecio , volgarità sui muri dei locali, sbronze fuori luogo, urla allo spaccio per impressionare i bocia.
    Ho qui voluto stuzzicare la memoria di molti: un po’di modestia e sincerità non guasterebbero sulle labbra di tanti che declamano il proprio spirito di servizio come il sale della vita, appreso sotto naia. Altruismo e spirito di sacrificio sono oggi un patrimonio dell’ANA, vedasi la Protezione Civile e le mille iniziative benefiche, ma sono sentimenti in gran parte maturati dopo la naia, col passare delle stagioni ed il mutare della persona.
    L’ANA ha beneficiato del lavoro educativo svolto dai Quadri, concimando e nutrendo un terreno faticosamente seminato allora, del quale ha saputo raccogliere i frutti migliori.


    Magg. Alessandro Pinelli


    Troppo… alpino


    Il mio nome è Luca e premetto che non ero un militare di leva ma un volontario, un VFA in ferma annuale. Sa perché sono stato congedato?Perché dopo 10 giorni di servizio sono stato mandato all’ospedale militare di Verona perché, secondo i medici della caserma, ero in sovrappeso.
    La risposta del dottore dell’os
    pedale è stata siccome pesi 115 Kg, invece che 111, ti dobbiamo mandare a casa . Capisco se fossi alto 160 cm, ma sono alto ben 196 cm, sportivo fin da piccolissimo e non ho mai avuto problemi di salute; quel giorno non sono stato l’unico, come me tanti altri ragazzi perché pesavano 1 o 2 chili in più o in meno sono stati spediti a casa .
    Caro direttore, quello che mi da più fastidio non è il fatto di essere stato congedato, perché se volessi potrei ripartire ancora come volontario senza problema, ma il fatto che tutti si lamentino perché non c’è abbastanza personale per formare un esercito di professionisti, un esercito di gente come me che avrebbe fatto il proprio dovere in modo più che adeguato e onorandolo, sapendo che cosa vuol dire essere alpino e invece li si congeda per un futile e stupido motivo.


    Luca


    Ortigara: quale pellegrinaggio?


    Anche quest’anno si avvicina la seconda domenica di luglio e con essa l’importante appuntamento associativo qual è il pellegrinaggio in Ortigara che mi accingo ad organizzare assieme alle sezioni sorelle di Asiago e Verona, come oramai succede da molti anni.
    Consci dell’importanza della manifestazione, dal punto di vista morale ed associativo, non lesiniamo energie per riuscire a portare ad oltre 2.000 metri di quota, in una delle zone più suggestive ed impervie dell’altopiano di Asiago, quanti più alpini possibile.
    Certo, sono passate quattro generazioni dagli eventi che lì vengono ricordati, per cui è inevitabile che la memoria storica vada via via affievolendosi. Però c’è una cosa che rende sempre attuale il pellegrinaggio, ed è la nostra stessa esistenza come Associazione.
    Non credo sia stato un caso se nel 1920 la prima Adunata Nazionale si è svolta proprio in Ortigara, nonostante l’Associazione fosse nata a Milano, come non credo sia un caso che sulla cima c’è una semplice colonna in marmo, mozza, anziché un meraviglioso monumento. Questo perché quel monumento esiste già, non è fatto di pietra ma è costruito dai cuori di generazioni di alpini che, anno dopo anno, si sono date convegno in quel luogo brullo e spoglio per ricordare e per ritrovarsi, per sentirsi parte viva di una società pulita che si riconosce in valori semplici e forti quali l’amicizia e la solidarietà.
    Con questi intendimenti affronto quella domenica, e mi piacerebbe che così la vivessero anche le altre persone che lì convengono. Già, le persone, la gente. Purtroppo temo che lo spirito con cui si affronta il pellegrinaggio ogni anno vada scemando, tanto è vero che il termine Festa dell’Ortigara sta sempre più prendendo piede rispetto al vero termine di Pellegrinaggio dell’Ortigara . Profondiamo ogni sforzo per fare in modo di consentire la massima affluenza in quel giorno, ma da qualche tempo a questa parte la sera torno a casa molto arrabbiato, e non certo per gli innumerevoli inconvenienti che si devono affrontare e risolvere. No, mi arrabbio quando vedo un mulo che someggia due damigiane, posto a mostrare le terga all’altare dove celebriamo la Messa in suffragio di tutti i Caduti. Mi arrabbio quando vedo singolari personaggi stranamente addobbati, camminare per quei sentieri come se simili pagliacciate, completamente avulse dal senso del pellegrinaggio e senza una qualsiasi motivazione, potessero in qualche modo rendere omaggio a chicchessia.
    Mi arrabbio quando vedo che la gente, la tanta gente che lassù si spaccia per alpino, pensa di avere solo diritti, tutti i diritti del mondo, compreso quello di intasare con parcheggi le vie di fuga per i mezzi di servizio e soccorso, o di occupare i pochi spazi disponibili in maniera ignobile, spandendo rifiuti ovunque, senza nessuna volontà di affrontare gli inevitabili problemi creati dalla particolare logistica della zona dove ci ritroviamo.
    Ogni anno, assieme ai colleghi presidenti di Asiago e Verona compiamo autentici miracoli per ottenere dalle autorità dei permessi sempre più permissivi per i nostri alpini, ma vi sono limiti che, prima che dalle leggi, sono fissati dal buon senso e che non possono essere valicati, pena l’annullamento della manifestazione.
    Sia chiaro, con questo non intendo dire che il pellegrinaggio in Ortigara debba diventare una riunione di trappisti, anzi credo che fare un po’ di festa sia il modo migliore di ricordare chi a vent’anni avrebbe voluto far festa pure lui, ma credo pure che vi sia un momento per far festa ed un momento per fare gli uomini.
    Sennò meglio stare a casa.
    Caro direttore, perdonami questo breve sfogo, spero sia ancora concesso di brontolare prima di rimettere lo zaino in spalla. Spero solo che al prossimo pellegrinaggio gli alpini tengano conto di questa breve riflessione, senza usare l’espressione di comodo ma tanto lo fanno anche gli altri .
    Cominciamo noi a comportarci da alpini. Probabilmente, poi, gli italiani seguiranno


    Roberto Genero
    (presidente della Sezione di Marostica)