Voci dall’Ortigara

    0
    131

    L’Ortigara a distanza di cento anni è ancora capace di portarci le voci degli alpini che per sempre custodiranno questo luogo, un messaggio dentro una bottiglia lanciata nel mare del tempo. 10 giugno 1917. Nelle trincee di quota 2.012 della linea italiana, gli alpini osservano con trepidazione il bombardamento italiano che promette di distruggere i reticolati e i nidi di mitragliatrice che proteggono la linea austriaca. Tra loro vi è un muratore padovano, di Vigonza per la precisione. Il suo nome è Antonio Baratto, classe 1891, inquadrato nel battaglione Sette Comuni. Durante il gelido inverno, ha avuto la fortuna di essere scelto come attendente di un tenente di Biella, cugino del comandante della compagnia, un Capitano di Vercelli. Il giovane si fa subito voler bene dai suoi superiori. 

     

    Gli promettono che, a guerra finita, se torneranno a casa lo porteranno con loro a lavorare nelle lanerie di famiglia a Biella. Alle ore 15 si aprono i varchi, gli alpini del battaglione Sette Comuni escono dalle trincee e, superata la Valle dell’Agnellizza sotto il fuoco dell’artiglieria e delle mitragliatrici, risalgono l’Ortigara avendo come obiettivo la quota 2.105. Ed ecco il ricordo di Antonio: “Al terzo assalto, dopo essere stati respinti due volte dal micidiale fuoco nemico, gli alpini erano arrivati a pochi metri dalla quota 2.105.

    Il mio ufficiale gridava «Avanti! Avanti alpini!», quando cadde ferito colpito da una raffica di mitraglia alle gambe, a pochi metri dal suo attendente. Tutto attorno una massa di feriti che si contorcevano e chiamavano «Aiuto! Aiuto!», alcuni gridavano «Mama mia! Mama!». Il Capitano era lì vicino e mi grida «Vai a prenderlo! Vai a prenderlo! Non vedi che non si alza». Io rispondo «I me copa sior Capitan! », poi esco allo scoperto, trascinandomi a carponi in avanti, sotto le raffiche che tagliavano i ciuffi di erba in mezzo ai sassi.

    Afferro il Tenente e lo trascino nella buca più vicina. L’ufficiale ha gli scarponi a penzoloni, imbrattati di sangue, trattenuti alla gamba solo dalla pelle. Poi me lo carico in spalla e piano piano, tra i lamenti degli alpini feriti a terra, lo porto al primo posto di medicazione. Vedono subito che ha le caviglie tranciate, ha perso molto sangue. Lo inviano in barella all’ospedale da campo, dove poco dopo arrivo con le cose personali del mio ufficiale che ho raccolto. Lo saluto per l’ultima volta. Poi torno sul campo di battaglia, fra gli alpini che stanno ricevendo il cambio. Sono ridotti a metà, gli altri morti o feriti. Sotto il fuoco austriaco, ripieghiamo a Malga Moline, dove finalmente trascorriamo un periodo di riposo. Dopo molti anni, seppi che il giovane Tenente era morto di setticemia in un ospedale di Milano”.

    Antonio cadrà prigioniero pochi mesi dopo, il 5 dicembre 1917, mentre con gli alpini del Sette Comuni ripiegava dalle Melette verso Sasso Rosso e la Val Frenzela. Tornerà in Italia nel novembre 1918, dopo undici mesi trascorsi a Mauthausen. Lo stesso giorno, a poche centinaia di metri, un altro giovane, Giuseppe Mosele di Asiago, classe 1893, inquadrato nel battaglione Bassano, è in procinto di partecipare ad un’operazione pericolosa, che cercheremo di ricostruire assemblando il puzzle dei ricordi. La quota 2.003 che, ai piedi dell’Ortigara, fa da spartiacque tra il Vallone dell’Agnellizza e il precipizio sulla Valsugana, è divenuta per opera del genio austriaco un piccolo fortino inespugnabile.

    Dalle entrate rinforzate dal cemento armato, accessibili a nord da piccoli sentieri che risalgono i dirupi, si entra in un sistema di cunicoli che portano a postazioni di mitragliatrici dalle quali è possibile colpire gli uomini che si muovono nel vallone. Ne sanno qualcosa gli alpini del Bassano che, iniziato l’attacco all’Ortigara, vengono subito bloccati dal violento fuoco delle Schwarzlose in caverna e da tre ordini di reticolati che impediscono a chi si muove allo scoperto di avvicinarsi alla 2.003. Occorreva mettere in atto uno stratagemma.

    Un ufficiale del Bassano particolarmente coraggioso, aveva formato un plotone di dieci alpini scelti tra gli abitanti del posto. Giuseppe era tra questi, conosceva quei lontani pascoli perché d’estate vi portava il bestiame. Tra loro anche tre arditi, ossia alpini che avevano ricevuto un particolare addestramento per il combattimento ravvicinato. Nelle notti precedenti, questo plotone aveva già effettuato delle ricognizioni sul terreno per individuare il percorso più veloce per risalire lo strapiombo e prendere il “fortino” di quota 2.003 alle spalle. E arriviamo al giorno dell’attacco.

    Il plotone si muove sullo strapiombo, gli ostacoli naturali, tra i quali un torrente d’acqua effetto dell’abbondante pioggia che cadeva in quelle ore, vengono superati grazie ad una passerella costruita in fretta dal genio. La posizione è difesa da circa 100 uomini, gli alpini sono ormai a pochi metri dalle entrate del fortino. Dalle sentinelle proviene un fortissimo odore di cognac, i tre arditi hanno facile gioco nel neutralizzarle senza far rumore. Il resto della squadra provvede a lanciare le bombe a mano dentro le feritoie e i cunicoli, da dove escono terrorizzati i soldati austriaci, alcuni dei quali sono presi e gettati nel sottostante dirupo.

    L’ordine, terribile, era di non fare prigionieri. La guarnigione si arrende, gli ufficiali sono risparmiati e gli alpini possono lanciare un razzo per segnalare ai comandi sul Campanaro che la via era libera. Un altro plotone, armato di mitragliatrici e bombe a mano, si muove subito all’attacco ed occupa la posizione, rivolgendo poi le armi contro la sovrastante quota 2.101 dell’Ortigara, il vero obiettivo dell’azione. Anche Giuseppe, come Antonio, sarà fatto prigioniero nel novembre 1917 a Foza e dopo un anno di prigionia poté rientrare in Italia e riabbracciare i propri cari.

    Un comune destino per i due alpini che, fortunatamente, sopravvissero alla guerra. Hanno avuto il tempo di lasciare il ricordo nella bottiglia di vetro che è stata raccolta dai figli, poi dai nipoti, e ancora dai pronipoti. È giunta fino a noi, e noi gliene siamo grati. Sono Uomini dell’Ortigara.

    Paolo Volpato
    volpaolo@libero.it