Vent’anni in amicizia

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    Percorro i 780 km che vanno da Mosca a Rossosch in compagnia di Peter. Ha più di ottant’anni ed è un medico. Passo con lui dodici ore, tante sono quelle che servono per arrivare a destinazione. Io non conosco una parola di russo e lui di italiano, ma scopro che disegnando si possono dire tante cose e, così, alla fine lui sa tutto di me e io di lui. Nelle pause di questo estenuante esercizio comunicativo, guardo fuori dai finestrini. L’autunno qui è già arrivato con un mese di anticipo, rispetto all’Italia.

    Lo si vede dal colore delle foglie, pronte a cedere sotto i colpi dell’inverno in arrivo. Mi vengono in mente le parole di Bepi De Marzi, quelle de “L’ultima notte”: Cammina, cammina… Certo, nel ’43 gli alpini non camminavano su questa direttrice, erano giù, più in basso sulle rive del Don. Ma la potenza evocativa del paesaggio arriva comunque alle radici del cuore. Malinconia, memorie, senso di impotenza, tutto si mescola nel caleidoscopio dei sentimenti. L’arrivo in serata a Rossosch avviene sotto un cielo lacrimoso, che non mollerà mai per tutti i giorni della permanenza in terra russa. Ad accogliermi Gianna Valsecchi, da 23 anni angelo-interprete degli alpini. Una volontaria col cappello alpino scolpito nel cuore.

    La sorpresa inizia arrivando all’asilo. Chi non l’ha mai visto in precedenza ne rimane colpito. È un edificio importante, dalla forte personalità, diventato nel tempo il punto di riferimento per progettarci davanti una piazza, intorno alla quale fanno corona una recentissima chiesa ortodossa, il campanile di quella storica, abbattuta dal furore anticristiano, alberghi e negozi. Soprattutto l’asilo di Rossosch s’è imposto come luogo educativo di eccellenza. Ci dicono che fa incetta di riconoscimenti a livello regionale.

    Per iscrivere un bambino bisogna concorrere con impegnative graduatorie e accettare di mettersi con pazienza in lunghe liste d’attesa. Merito anche della direttrice, da vent’anni la signora Liuba Laptjiova, “brava, buona e molto severa”, come viene unanimemente definita dai suoi collaboratori. Sabato mattina si parte con le celebrazioni commemorative. Si inizia con la Messa celebrata nel cortile interno. Sono presenti le autorità locali e quelle italiane. Tra queste spicca l’Addetto Militare all’Ambasciata di Mosca, gen. Giovanni Armentani. Intorno fanno corona i 400 alpini venuti da ogni parte d’Italia. Poi arriva il tempo dell’ufficialità. Si comincia con l’alzabandiera.

    Due inni e due bandiere che si alzano al cielo, a garrire strette in un unico abbraccio, mentre le note increspano le braccia con la pelle d’oca. Prende la parola il presidente della Provincia, Gregor’evic Alejnik. Ricorda che a gennaio si è festeggiata la liberazione dall’invasione tedesca e italiana. Giusto che si sappia che la memoria non molla. Poi ricorda che l’importante è andare avanti, sperando che la guerra non succeda più, augurando per tutti un cielo di pace. Tatiana Nikolajevna, Responsabile del Dipartimento Regionale della Cultura, fa l’elogio dell’Asilo nr. 23.

    Qui lo chiamano così. Ricorda che qui lavorano i migliori insegnanti e soprattutto fa l’elogio della struttura, che essendo frutto del design italiano si impone per l’elevatissima funzionalità. È la volta di Alim Morozov, innamorato dell’Italia e attuale direttore del Museo Etnografico. Ricorda com’è nato il progetto dell’asilo ed anche la storia del monumento al centro della piazza. «Un simbolo di democrazia popolare che va conservato». I toni sono pacati ma l’allusione è a qualche esaltato che su certo nazionalismo anti alpino vorrebbe costruirsi qualche piccola fortuna politica.

    Chiude ricordando Bortolo Busnardo, Leonardo Caprioli e Ferruccio Panazza, andati avanti, come si usa dire tra gli alpini. Parole intense arrivano anche dal Rettore dell’Università Pedagogica di Voronez, Sergej Ivanovic Filonenko. “Come storico della guerra – ha esordito – vorrei ricordare che questo asilo ha dato una spinta in avanti nel modo di rapportarsi tra storici italiani e russi. Ora molti libri sono pubblicati sui fatti qui accaduti e sono testi fatti in collaborazione, che ci consentono di evitare falsificazioni o revisione dei fatti”. Prima del saluto del sindaco, a prendere la parola è il nostro presidente, Sebastiano Favero. Porge un “primo pensiero alle vittime di tutte le parti, in particolare alle popolazioni che hanno subito il peso dell’occupazione”.

    Rievoca le parole di Caprioli al momento dell’inaugurazione dell’asilo, ricordando che “gli alpini erano tornati non più da invasori, ma come amici, per costruire la Casa Sorriso, per essere segno di un mondo mutato, un futuro di uomini veri ove la generosità, l’altruismo, l’onestà soppiantano ogni violenza e meschinità”. Anche lui ricorda con riconoscenza Panazza, Bortolo Busnardo, Angelo Greppi, Igor Michajlovic Jvanov, allora sindaco della città e i 700 volontari che hanno reso possibile il sorgere dell’opera. Rivive lo spirito con cui furono portati avanti i lavori, di cui lui è stato protagonista della prima ora, ricordando che l’“Asilo Sorriso” è stato voluto come “monumento vivente, per costruire rapporti nuovi e fraterni con la popolazione russa, perché mai l’ANA si è mossa con intenti diversi da quelli della solidarietà e dell’amicizia, in Italia, nel mondo e particolarmente in terra di Russia”.

    Poi, a fugare possibili equivoci, l’orgogliosa chiosa finale: “Se vi sono stati singoli episodi di comportamenti non consoni ce ne scusiamo e saremo sempre disponibili a trovare insieme la giusta soluzione, perché quello che ci guida è la volontà di costruire rapporti amichevoli con tutti, ma non accetteremo mai d’essere catalogati per quello che non siamo, cioè dei provocatori. In Italia e nel mondo il cappello alpino è sinonimo di solidarietà, di disponibilità e di aiuto per chi ha bisogno, di sicurezza, senso del dovere ed onestà”. Chiude gli interventi il sindaco di Rossosch, Juri Mishankov, il quale ricorda che “l’asilo non va considerato in negativo come una sorta di riparazione, di pentimento dei soldati italiani. Esso è piuttosto, in positivo, un grande simbolo di amicizia, di cui non c’è pari in nessun altro angolo del mondo”. Alle parole istituzionali fa seguito il protagonismo dei bambini. È un’esplosione di colore, di voci, di innocenza, ma anche di grande preparazione. Si esibiscono come solo loro sanno fare, estranei alle alchimie razionali degli adulti.

    Un tempo sapranno perché c’erano tante penne nere alla loro esibizione. Per ora sfoggiano la creatività della loro innocenza, catturando le emozioni dei grandi e compulsando i loro apparecchi fotografici, alla ricerca di scatti che raccontino quanto vedono ma incapaci di catturare lo spirito che, nell’essenza, rimane indicibile. Se i colori della festa indulgono all’allegria, il tragitto verso Nikolajewka il giorno dopo, intreccia memoria e panorami di infinito che obbligano alla riflessione e alla malinconia. Sono le strade che hanno percorso gli alpini, nella loro epica ritirata. Nessuno commenta, ma tutti rivivono la drammaticità di quei ricordi. Ricordi che si materializzano quando un passaggio a livello e un cartello ai bordi della strada ci ricordano che siamo arrivati a Livenka, fino al ’53 divisa da Nikolajewka, ma ora unita amministrativamente in un unico paese.

    È un brivido vedere il noto sottopasso, sentire l’eco della voce del generale Reverberi, intento a gridare “Tridentina avanti!”, mentre un treno merci da 70 vagoni, lacera malinconicamente il cielo con il suo fischio e il gracchiare dei suoi ferri, come un lamento o una preghiera per quanto qui è accaduto. Poco più in là, dentro una fabbrica dismessa, un altro tunnel, da cui uscivano i nostri alpini, come grani di un rosario, falciati dalle mitragliatrici russe, sistemate nel vicino campanile. Ora di quel campanile e della chiesa, distrutte dalla furia stalinista, rimane solo un cerchio di betulle a far da guardia al monumento agli 863 caduti indigeni di Nikolajewka. Gli incontri ufficiali a Livenka vedono la presenza del neo sindaco, Vasjli Nikoilavic, della sua intraprendente e preparatissima vice, il direttore del Museo e la direttrice della scuola. Ambienti essenziali, ma pieni di dignità. A rallegrarci le note di una fisarmonica che gli alpini hanno donato ad una vivace signora del luogo.

    Ha più di ottant’anni, ma ricorda perfettamente gli avvenimenti della guerra. Ricorda le slitte che trasportavano i corpi fuori dal paese. Ricorda che gli alpini erano, tra tutti i soldati stranieri, “i peggio equipaggiati”. “Qualche volta li facevamo entrare nelle nostre case – ci racconta – ma appena qualche soldato finlandese, loro alleato, se ne accorgeva, lo buttava fuori per prenderne il posto”. Il senso della nostra visita a Livenka è anche quello di dare materializzazione alla costruzione di un ponte sul fiume Valuj. Ci portano sul posto per verificare di persona. Effettivamente ci chiediamo come faccia a restare in piedi con il peso degli automezzi che ci passano sopra. Il sindaco dice che non hanno fondi e che l’opera è fondamentale per unire Livenka e Nikolajewka.

    Non occorre molto al nostro staff di tecnici per capire cosa c’è da fare. Non c’è la pacca sulle spalle, per la conclusione dell’affare, ma le parole e i progetti portano in quella direzione. La giornata si chiude sul cippo posto sopra la fossa comune che raccoglie i resti dei nostri alpini. Anche qui si celebra una Messa, attorniati dall’immensa distesa di un campo di girasoli. C’è un silenzio che cattura e unisce gli animi. Si comprende che anche così si fa Corpo degli alpini. Il pensiero corre a chi non ce l’ha fatta a raggiungere la libertà, in quel gelido inverno del ’43, alle lacrime delle loro madri, al sogno folle di chi credeva di barattare il corpo di tanti alpini con una spartizione di bottino, dopo la vittoria, tanto presunta e sbandierata nei proclami, quanto smentita dai fatti. Ma tutto questo è senno di poi.

    Nei fatti resta il dramma di una guerra senza senso e il sacrificio di migliaia di innocenti. Ma resta anche la volontà di stendere bandiere di pace e relazioni di amicizia. Ne abbiamo una prova visitando la scuola “Italo Calvino” di Mosca. Dall’asilo alle superiori, il tutto con insegnanti italiani e alunni russi che vogliono crescere nella lingua di Dante, come una seconda lingua madre. A sentire parlare questi ragazzi ti senti immediatamente a casa. Per loro la storia rimane sullo sfondo con tutti i suoi drammi, ma il presente è popolato di volontà di stare insieme, di ascoltarsi e di parlarsi, convinti che l’unica strada del futuro sia quella della fraternità.

    Bruno Fasani