Uniti dal destino

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    La guerra aveva cambiato molte cose. I profili delle montagne non erano più gli stessi, mutati per sempre dai colpi dell’artiglieria, dagli scoppi delle mine nascoste nelle viscere della roccia trivellata. Centinaia di chilometri di filo spinato rompevano la neve e anticipavano baraccamenti, avamposti, veri e propri villaggi costruiti in bilico tra spuntoni e campanili di sasso. Poi arrivò l’autunno del 1917 e l’ordine di lasciare le postazioni e riversarsi sul Piave, attraverso la pianura lacerata e divenuta povera. Nulla fu più come prima: gli orizzonti, i paesi, le famiglie. Dopo una manciata di mesi, ogni contrada, borgo o città, raccontava la sua storia attraverso i nomi incisi sui monumenti ai Caduti.

    Erano stele o piastre in marmo bianco, costruzioni semplici, lineari senza fronzoli perché vincesse la forza della memoria sullo stile scultoreo. Stessi cognomi, stesse età. Lo stesso destino che accomunò molti giovani persino parenti, cugini o fratelli. Tra loro Luigi, detto Gino e Renzo Piazzi partiti per il fronte già laureati, l’uno in Scienze commerciali e l’altro in Medicina. Erano nati a Milano, da una famiglia originaria della Valtellina che risiedeva da sempre nella campagna piana che anticipa la briosa città meneghina, più precisamente a Nerviano. I Piazzi erano conosciuti nel piccolo paese per ingegno e magnanimità; il padre dottor Giuseppe che fu garibaldino, trasmise ai figli il suo amore per la Patria e per il prossimo. Gente buona e benestante eppure con lo sguardo costantemente rivolto ai bisognosi, ai più poveri. Vittoria Mari e Giuseppe Piazzi ebbero oltre a Gino e Renzo altri quattro figli: Bice e Virginia, Franco ingegnere, poi dirigente Pirelli e Filippo personaggio importante dell’editoria italiana.

    Allo scoppio delle ostilità, nel maggio 1915, Gino venne arruolato nel battaglione Valtellina del 5º Alpini come tenente aiutante maggiore, Renzo come tenente medico nel 2º Alpini, battaglione Dronero. Si prodigarono entrambi per i compagni d’arme, seppure su diversi fronti erano, nell’operare come soldati, intimamente uniti dagli insegnamenti dei genitori. Morirono entrambi. Caddero sulle montagne simbolo della guerra alpina: il Monte Nero e l’Ortigara. Renzo l’8 agosto 1916, colpito insieme ad altri ufficiali da una granata a Frane di Kozliak: “Fu estratto cadavere tra la viva commozione di quanti, per ben 13 mesi, nella Compagnia, avevano visto il suo mesto e inalterabile sorriso”. Luigi, non molto alto di statura, viso paffuto, sguardo colmo di bontà morì un anno più tardi, il 26 giugno 1917 sull’Ortigara, montagna sacra. Dapprima sepolto a Roccolo Cattagno, poi a Gallio e dal 1931, per sempre, a Nerviano. La stele che ne traccia la figura con essenziali parole, è cimelio: lacerata al centro da un colpo d’artiglieria nemica. Furono entrambi decorati di Medaglia d’Argento al Valor Militare. La Grande Guerra è intrisa di storie come questa, di segni d’un destino che si intreccia, muta e poi torna.

    Di giovani uomini con i sogni, le paure, i desideri di una vita messa in attesa. Sentiamo di ricordarli, di raccontarli perché non si dimentichino e, in qualche modo, si comprenda il loro sacrificio. Il tempo aveva lasciato cadere sulle figure di Renzo e Luigi Piazzi un sottile strato di polvere. L’Alpino Gildo Lampugnani, classe 1929 lo ha soffiato via. Lo ha fatto condividendo insieme a noi i suoi ricordi personali, le fotografie scattate di recente alle lapidi dei Piazzi, gli incontri con gli eredi che ancora abitano la bella casa colonica, antica dimora di famiglia. Gildo ci ha chiamato e richiamato. Con cordiale tenacia ha chiesto che questa storia fosse resa pubblica attraverso le pagine del nostro mensile; lo ha voluto per ricordare quanto fondamentali siano stati gli insegnamenti infusi dai genitori, la forza dei valori trasmessi di generazione in generazione. Gildo, Alpino del battaglione Bolzano, ha qualche acciacco dovuto all’età, ma la mente salda. Il cuore alpino.

    Questo ci ha colpito più di tutto: il suo desiderio di rendere migliore, attraverso l’esempio dei fratelli Piazzi e di tantissimi come loro, il nostro aldiqua. Non un esercizio di retorica, inutile e privo di senso, ma piuttosto un atteggiamento concreto che tutti dovremmo sposare. Se ci è caro il nostro domani.

    Mariolina Cattaneo