Una lezione da alpini veri

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    È una calda mattina di luglio quando mi inerpico su per la montagna per raggiungere i Colli di San Fermo, nella bergamasca. Salgo attraversando piccoli paesi, che sembrano un po’ fuori dal mondo ad uno abituato a macinare adrenalina dentro il traffico caotico di tutti i giorni. Adrara San Rocco, Adrara San Martino… ciuffi di case spruzzate lì dall’uomo per stare insieme, quando l’urbanistica non aveva ancora inventato cancelli e mura per isolarsi dagli altri.

    È lì che abita il Vava, una pasta d’uomo che, se non avesse fatto l’alpino, bisognerebbe farlo ad honorem. È stato lui ad invitarmi ad una festa speciale. Me l’ha spiegata al telefono ma ancora non mi rendo esattamente conto di cosa andrò a fare. Basta poco per capirlo però, appena arrivo. La Sezione di Bergamo, fiore all’occhiello dell’Italia alpina, ha schierato per l’occasione le sue truppe migliori. Dal Presidente, al vice Presidente, capigruppo, tesorieri, consiglieri nazionali, un centinaio di militanti… Del resto l’occasione non è da poco. La missione è quella di portare in montagna le persone disabili. Quattrocento complessivamente, considerati anche i loro accompagnatori.

    Si sa che gli alpini amano la montagna. E se in montagna loro ci vanno e con loro ci va chi ha le gambe buone, perché non pensare anche a chi è condannato a non vederle mai da vicino, per via delle gambe che non sono buone? È un lungo serpentone di carrozzine e braccia di supporto, punteggiato da cappelli alpini, quello che si snoda tra pascoli e boschi su, sui Colli di San Fermo. Intorno un clima di gioia che le parole non sanno raccontare, perché le emozioni non sono mai figlie della parola, ma del cuore. Da lassù mi indicano in basso il Lago d’Endine.

    È sulle sponde del lago che, a suo tempo, Caprioli ha voluto una casa per le persone con deficit di abilità. Ancora una volta un segno con la firma alpina. Mi affiancano i giornalisti presenti per qualche domanda. Rispondo per mestiere, ma dentro mi martella quello che mi ha detto un alpino poco prima: «Noi abbiamo il culto dei monumenti, che ci ricordano il passato. Ed è giusto ricordare. Ma quelli sono funzionali a renderci disponibili a servire i ‘monumenti’ del presente, ossia le persone che hanno bisogno». Macino queste parole, come una sentenza biblica, mentre mi rendo conto che è più facile indossare un cappello, magari pieno di retorica, che far passare dentro la testa il valore umano e sociale che esso rappresenta.

    Penso a qualche amico alpino che, innamoratosi della storia, ha finito per ammalarsi di storicismo, come se l’essenza della nostra identità fosse quella di finire imbalsamati dentro i monumenti che celebriamo. Non esiste alpino senza il suo passato, ma non basta un cappello in testa o l’orgoglio per una storia che molti di noi hanno sentito solo nei racconti, per trasformarci automaticamente in alpini.

    È la passione per il presente che ci connota come servitori del nostro Paese, come lo furono gli alpini in altri contesti storico-sociali. Senza questa passione finiremo per essere solo cultori della retorica, magari cliccata con qualche “mi piace” su Facebook, convinti che la fatica sia quella di sfogliare qualche libro o di vendere parole, che è l’arte di illudersi restando con la schiena dritta.

    Bruno Fasani