Una faccenda un poco seria

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    Una faccenda un poco seria Era la metà dello scorso agosto quando, nel laborioso Nordest, andava in onda l’ennesima polemica ferragostana, di quelle che danno modo ai giornalisti di vendere qualche copia in più e, ai politici, scampoli di visibilità, in attesa che i talk show televisivi li rimettano in gioco. Se Flaiano, parlando della politica, diceva che la cosa era grave ma non seria, nel nostro caso la querelle non era grave. Casomai un pochino seria. Nel senso che ad essere tirati in ballo sono stati gli alpini e il vescovo del luogo, finito incolpevolmente sulla graticola. Cosa seria perché si andavano a incrinare rapporti che da sempre, chiamare cordiali, risulta perfino riduttivo. Ad accendere le polveri, ancora una volta, la “Preghiera dell’Alpino”.

    Lassù, tra i monti di Vittorio Veneto scenario delle gesta belliche della Grande Guerra, è la chiesetta tirata su dagli alpini a mettere a confronto sensibilità diverse. Da una parte il celebrante che chiede di modificare la versione in cui si chiede al Signore di rendere “forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria e la nostra millenaria civiltà cristiana”. Dall’altra gli alpini determinati a continuare imperterriti e fedeli alla versione che si è sempre pregata, dal ’49 in avanti.

    Due sensibilità che attingono a ispirazioni diverse. La prima più attenta alla cultura moderna e a un certo pacifismo arcobaleno, quello che fa tanto politicamente corretto e che si ispira alla versione del 1985, voluta dall’Ordinario Militare per gli alpini in armi. Una versione elaborata nel ’72, gli anni in cui gli slogan invitavano a fare l’amore e a non fare la guerra, mentre da Sanremo partiva l’invito a mettere fiori nei nostri cannoni.

    La seconda, più fedele alle origini, analoga a quella delle nostre Sovrintendenze ai monumenti, che non consentono di toccare neppure un mattone che abbia il linguaggio del passato. Di conseguenza, per la maggior parte degli alpini valeva e vale che il testo originario rappresenta l’epos di una vicenda storica di cui bisogna andare orgogliosi, sia pure con tutte le ombre di cui è intrecciata. Tanto è bastato perché di questo diverso sentire si appropriasse il mondo dei media, ma soprattutto politici pronti ad arruolare tra le proprie fila disarmate penne nere, convinte di aver trovato in loro i nuovi protettori.

    L’Ana, detto senza polemica, non ha bisogno di fare politica per esprimere la propria vocazione e per accreditarsi nel tessuto sociale. Soprattutto non ha bisogno d’essere strumentalizzata dalla politica. Chi volesse mettere al posto del nostro cappello una tessera di partito, finirebbe per rubare quello che c’è sotto, ossia la testa, riducendoci a poco più di una caricatura. Ma l’Ana non ha neppure bisogno d’essere mortificata da certo giornalismo, che vorrebbe ricondurre la paternità della nostra Preghiera a un presunto assassino senza scrupoli.

    La storia non si scrive facendo selezione chirurgica delle fonti, per ritenere ciò che è funzionale ad una tesi. Le fonti o si ascoltano tutte o si finisce per raccontare i fatti, omettendo magari un solo particolare. Uno solo, ma importante. La verità meno uno, come la definiva Lanza Del Vasto, il grande seguace di Gandhi, è tra le menzogne la peggiore di tutte. E comunque la si voglia guardare, la “Preghiera dell’Alpino” non è la storia di un uomo ma la storia di un popolo, quello delle penne nere, che non possono essere imprigionate nella retorica dei ricordi, ma neppure nei moralismi di certo pacifismo o giornalismo in doppiopetto.

    La loro potrà essere una storia ruspante, ma è anche storia di eroi, di uomini grandi e dalla forte coscienza sociale, ieri come oggi. Uomini da cui tutti avrebbero da imparare.

    Bruno Fasani