Un ponte sul futuro

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    Due donne, tre alpini, tre amici e una bella storia di solidarietà che inizia a Ndithini, un piccolo, sperduto villaggio tra le colline del massiccio dell’Ithanga, in Kenya, dove c’è una missione delle suore dell’ordine delle piccole Figlie di San Giuseppe che aiutano i bambini orfani, ammalati e denutriti. Negli anni hanno fatto tanto ma serve sempre una mano per sistemare e migliorare le condizioni di vita. E quando c’è stato bisogno di costruire un ponte per il villaggio gli alpini non si sono tirati indietro. Lo hanno chiamato “Il ponte delle nuove generazioni”. È un bell’auspicio per il futuro in una terra che ne ha tanto bisogno. Questa è la storia della sua costruzione…

     

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    Alle cinque di domenica 17 giugno stavamo imbarcando i bagagli all’aeroporto Marco Polo di Venezia. Eravamo in otto, diretti a Nairobi (Kenya), e poi a Ndithini, presso la missione gestita da suor Nadia Monetti. Tra le due ragazze che andavano a vivere un’esperienza completamente nuova nel continente africano c’era Arianna, una giovane maestra di Asiago che ogni anno passa tre mesi ad aiutare in missione. Poi c’eravamo noi sei, uomini più o meno di mezz’età, tutti con un sogno in tasca: Sergio Negrente del gruppo di Rosaro, Silvano Righetti del gruppo di Affi, Marco Mazzetto del gruppo di Noventa Vicentina e gli amici Pierluigi Baldan, Patrizio Zago e chi scrive, Umberto Moro.

    Si trattava di costruire un ponte in ferro e cemento armato che andasse a collegare le due sponde di un piccolo fiume. Durante il periodo delle piogge questo fiume si gonfia e non dà modo a nessuno di raggiungere la sponda opposta. Per circa un mese e forse qualcosa di più, il livello dell’acqua costringeva i ragazzi che frequentavano la “Secondary school”, cioè il nuovo politecnico che sta sorgendo, a compiere un lungo tragitto alternativo.

    *

    Era il lunedì mattina successivo ed eravamo già sul posto. Uno sguardo timoroso a quello che era un piccolo corso d’acqua, e dopo un’ora tutto era già deciso: il ponte doveva sorgere proprio in quel punto. Avevamo a disposizione le forze delle nostre sole braccia, unite a quelle di una decina di operai del posto. Il lunedì pomeriggio iniziarono gli scavi; picconi e badili si muovevano di concerto per trovare il punto più sicuro dove alloggiare i pilastri che avrebbero sorretto poi il ponte.

    Di giorno in giorno i lavori avanzavano sotto lo sguardo incredulo dei passanti. Mangiavamo sul posto di lavoro; se fossimo tornati ogni pomeriggio in missione per il pranzo avremmo perso troppo tempo. Lavoravamo dalle 7.30 del mattino fino alle 5.30 di sera. Di tanto in tanto qualche breve pausa ci permetteva di recuperare le forze: l’altitudine ti ruba le energie più in fretta. Si accavallavano gli inconvenienti e le successive soluzioni. Qualcuno pregava perché l’unico mezzo meccanico che avevamo, una piccola betoniera, non si fermasse; fortunatamente non cessò mai di girare. Gran parte del ferro necessario alla costruzione del ponte era arrivato con il container, spedito giorni prima.

    Si trattava di posizionarlo, e con enorme fatica ci siamo riusciti. Ogni pezzo delle dodici putrelle pesava circa 3,5 quintali, ma con lo sforzo simultaneo di 10-12 persone si spostavano e raggiungevano il posto stabilito. Il ponte alla fine avrebbe misurato quasi tredici metri. Ci siamo anche divertiti, nell’interazione tra noi, gente bianca, con le nostre abitudini, e loro, gente nera, con i loro usi e costumi. Il tentativo di comunicare spesso ricorrendo solo a gesti procurava fraintendimenti e ilarità generale. Ma più i giorni passavano e più ci si accorgeva che non stavamo solo collegando due sponde di un piccolo fiume, ma dentro ognuno di noi cresceva la consapevolezza che l’aspettativa riguardo al ponte era cosa comune: si mischiavano il sudore e gli sforzi. Le dodici mani bianche le venti nere stavano diventando una cosa sola.

    Quando le bandiere dei due Stati furono dipinte sulla trave esterna di ferro, ecco, in quel momento l’emozione ci prese tutti, e le poche parole che uscirono dalle nostre labbra a nulla valsero, non riuscivano a commentare il sentimento che ci pervadeva. Tutti attendevano quel ponte da più di quarant’anni. Poi il giorno dell’inaugurazione, esattamente tredici giorni dopo il nostro arrivo, il clima era di festa, l’aria che respiravamo era intrisa dei sorrisi della gente e delle danze dei bambini. La sera del sabato, il giorno prima di partire, sul viso di qualcuno scivolò una lacrima, qualche altro si vergognò di mostrarla e la tenne chiusa a fatica dentro l’anima.

    Il ponte è stato chiamato “Il ponte delle nuove generazioni”, ed è stato proprio per queste future generazioni che ognuno di noi ha speso il proprio sudore. Il ponte ora è la testimonianza di un cammino appena intrapreso. Quel ponte è costato intorno ai 10.000 euro. Ora attende di essere pagato. Se qualche persona di buona volontà è disposta a credere alle nostre emozioni e alle nostre speranze, aspettiamo che ci aiuti solidalmente. Non per noi, ma per le nuove generazioni.

    Questo il conto corrente di riferimento: Suor Nadia Monetti, via Sassara 38 – 30039 Stra (Venezia) – c/c: 18950378. È possibile donare anche attraverso l’associazione “Asanti Sana Onlus” (che in Swahili significa “grazie tante”). Gli estremi per i versamenti e altre informazioni sono sul sito: www.asantisana.org

    Umberto Moro