Un’Italia bella davvero

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    Seduto sul C-130 dell’Aeronautica Militare che ci sta portando ad Herat mi trovo a pensare quanto poco si sappia di Afghanistan qui da noi. Sappiamo che i nostri ragazzi sono là ma i giornali affrontano questo argomento come ogni altro, spinti più dalla morbosa curiosità per la polemica e il pettegolezzo piuttosto che dall’interesse per una corretta informazione. Non ci dicono come si vive in quella terra, se il nostro intervento sia in qualche modo servito e se valga davvero la pena di rimanere laggiù con i pericoli e i costi che una missione del genere comporta.

    Mi rendo conto, con un leggero senso di inquietudine, che non ho idea di che cosa ci aspetta. So, però, quello che vogliamo fare: dare una concreta dimostrazione di affetto e di vicinanza ai nostri ragazzi, dire loro che sono nei nostri cuori e nei nostri pensieri; che questa Associazione non li ha dimenticati. Camp Arena ad Herat é una base immensa. Brulica di uomini, in divisa e non, di varie nazionalità, anche se la maggioranza porta il tricolore sul braccio. Operano interagendo tra loro con una naturalezza stupefacente. Questo mi fa pensare con commozione ai tempi della mia naja, ai miei alpini abruzzesi che parlavano nel loro stretto dialetto e sorrido immaginandoli in un contesto internazionale.

    Girando per la base con il cappello in testa tutti ci sorridono tra lo stupito e il riconoscente. I primi due giorni le condizioni meteorologiche ci impediscono di andare a Farah a trovare i ragazzi del 9°, ma ci consentono di partecipare ad una serie davvero serrata di incontri che ci illustrano la missione, i mezzi, il territorio, la popolazione e, soprattutto, l’approccio italiano all’Afghanistan. Con gli alpini della 34ª Compagnia del Susa usciamo con i Lince per una dimostrazione. Li osserviamo nella loro professionalità con malcelato orgoglio e notiamo in loro una sorta di gratitudine. Finita la dimostrazione ci fermiamo a parlare. Ci interessiamo di loro, della loro quotidianità, dei loro affetti, di come mantengono i contatti con la casa lontana. Nasce subito un rapporto da vecchia naja. Si scherza e si sta assieme come se ci conoscessimo da tempo. E comprendiamo che la loro gratitudine per la nostra visita deriva dalla sensazione di essere un po’ dimenticati dall’Italia.

    Usciamo a cena con loro e ci invitano, poi, a passare a trovarli al Comando della Compagnia dove come d’incanto appare una bottiglia di grappa. Cantiamo e ci raccontano ancora di loro. Sono ragazzi seri, preparati, molto addestrati che, tuttavia, non hanno perso nulla di quello spirito che rende gli alpini soldati speciali. Ci raccontano delle missioni precedenti, dei pericoli e delle sensazioni che provano. Parlano dei loro figli e delle difficoltà delle loro mogli che, per usare le loro parole, “fanno una naja peggio della loro”, dovendo badare ai figli ed alla casa per sei mesi senza un aiuto e si commuovono. Raccontano degli afghani e rivendicano con orgoglio i successi di una missione che, solo a titolo esemplificativo, ha portato la popolazione studentesca dagli 800.000 maschi di dieci anni fa ai 9 milioni e mezzo di cui il 5 per cento donne, di oggi. Hanno contribuito in modo determinante ad un progresso impressionante, piantando il seme della speranza che non potrà essere rimosso da nessuno.

    Da Ulzio (Torino) si sono portati un pannello di legno pesantissimo scolpito in Mozambico circa 20 anni fa con lo stemma della Compagnia. Perché sono sì a Herat, ma sono pur sempre i Lupi dell’Assietta. Lo stesso spirito riscontriamo in tutti gli altri: da quelli del 2° che hanno terminato la missione e si apprestano a tornare in Italia, a quelli del 3° a Shindand e a quelli del 9° a Farah, che possiamo solo salutare in videoconferenza. Tutti portano con orgoglio la penna sull’elmetto perché sono alpini prima ancora che soldati. Gli artiglieri del 1° da Montagna del col. Costigliolo ci scortano al centro di Herat per la donazione di un’aula multimediale ad una scuola femminile e con orgoglio ci raccontano dell’attività di ricostruzione nella quale sono impegnati.

    Insomma, per farla breve, a Herat abbiamo trovato i nostri “ragazzi” perfettamente aggiornati ai tempi e addestratissimi, ma sempre alpini come un tempo, con la stessa umanità e semplicità. Si stupiscono dell’orgoglio che manifestiamo nei loro confronti perché anche loro, come chi li ha preceduti, compiono il loro dovere per convinzione e dignità e non perché qualcuno dica loro grazie. Sull’aereo che ci riporta in Patria sono davvero soddisfatto.

    Ho la sensazione che l’ultimo velo di diffidenza con i ragazzi in armi sia definitivamente caduto. Ora più che mai sarà necessario che entrino tutti nella nostra famiglia che è anche la loro. Rientriamo in un’Italia ormai in campagna elettorale che mostra i segni di una decadenza morale che sembra non riuscire nemmeno più a indignarci. La situazione potrebbe sembrare sconfortante ma poi penso che gli italiani per bene ci sono ancora e che gli alpini fanno parte a pieno titolo di questa schiera. Penso che là, a 5.000 chilometri dalla nostra bella terra, c’è una parte di Italia di cui tutti noi dobbiamo andare davvero fieri.

    Corrado Perona