Trafojer: le gesta del fiero bergamasco

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    Tra i protagonisti della battaglia per la Trafojer, ci piace ricordare Giacomo Pesenti: bergamasco della più bell’acqua, che partì volontario appena diciottenne per arruolarsi negli alpini. Le circostanze e le sue qualità fisiche e morali, fecero sì che “ol Giacumì”, come lo chiamavano gli amici, da semplice operaio che era, diventasse un abile alpinista, un roccioso soldato di montagna capace di affrontarne tutte le insidie e insieme di vincere il piombo nemico. 

     

    Di lui si sanno alcune gesta leggendarie, come quando, attaccato alla parete del Gran Zebrù, sulla cui cima vi era il presidio imperiale, con una fionda improvvisata, lanciava bombe a mano sulla soprastante posizione; ma, l’insidia più temibile per quei poveri nemici austriaci che stavano sulla vetta mezzi morti di freddo e di fame, era quella portata col vento, dal profumo della polenta, che lui e i suoi compagni in quella tana di ghiaccio, sospesa nel vuoto vertiginoso della parete, riuscivano a cucinare e a mangiare allegramente, a dispetto del nemico cui ormai mancava tutto.

    Un’altra azione leggendaria compì Giacomo quando, avvicinatosi furtivamente ad una baracca nel ghiaccio di un presidio nemico, col tacco dello scarpone ne sfondò il tetto per buttarvi dentro un paio di bombe a mano catturando i nemici storditi e feriti che mai si aspettavano un attacco “dall’alto”! Ma Pesenti, che anche dopo la guerra, diventato capotreno in val Seriana, aveva mantenuto una prestanza atletica straordinaria, tanto che i nipoti lo chiamavano “il nonno pirata”.

    Sul finir della vita volle scrivere un diario delle sue avventure belliche, recentemente ripubblicato, dove racconta le fasi finali della incredibile lotta per la cima della Trafojer: «Giunti di corsa sulla vetta, ci buttammo sulla neve per fronteggiare i nemici che accorrevano, tentai di salire sulla punta per entrare dalla feritoia di dove provenivano le bombe lanciate su di noi, ma dovetti desistere perché mi sparavano alle spalle. Allora con Beniton, Granil e Page saltammo un vuoto nel ghiaccio e ci buttammo verso l’ingresso della galleria. Ne uscivano implorazioni: ‘Bono italiano…bono!’.

    Entrammo nella posizione delle mitraglie e le rovesciammo poi proseguimmo in discesa nella galleria, buttando avanti a noi una gragnuola di bombe a mano che ci davano coraggio. Scendemmo in quel labirinto fino ad una specie di stanza dove trovammo le provviste degli austriaci. Stanco morto e affamato fra uno scoppio e l’altro, misi in un sacco le provviste e uscii all’aperto. Qui, su uno scoglio protetto, mi sedetti col le gambe penzoloni sul ghiacciaio dei Camosci e incurante della battaglia che più sopra infuriava, bevvi avidamente il latte degli austriaci che i miei compagni dicevano essere avvelenato, vi aggiunsi caffè e zucchero per inzupparvi croste di pagnotta a volontà.

    Infine, tutto solo, mentre gli scoppi della battaglia si andavano chetando, diedi fondo a mezza bottiglia di cognac e ben presto mi sentii estraniato dalla vicenda che stavo vivendo e mi invase un gran senso di pace e di felicità, come se fossi solo un alpinista che raggiunta la meta si beava di contemplare le belle cime e i scintillanti ghiacciai dell’Ortles».