Sul Pasubio, come atto di fede

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    Cosa può dirci il Pasubio che non ci abbia ancora detto? Se lo sono chiesti in almeno 500, la prima domenica di settembre, salendo su quelle stesse strade percorse quasi cento anni fa da quei soldati che sulla montagna andavano a combattere. La risposta, come sempre, ognuno l’ha trovata dentro di sé. Su queste personali premesse si è svolto l’annuale pellegrinaggio sul Pasubio, iniziato il sabato con l’omaggio ai Caduti all’Ossario di Colle Bellavista e proseguito con la deposizione di una corona d’alloro al Dente Italiano e al Dente Austriaco.

    Domenica, invece, alpini e non, hanno raggiunto la Selletta Comando dalla strada degli Eroi (i più numerosi), dalla strada degli Scarubbi e dalla strada delle 52 gallerie. Giunto alla 51ª edizione, il pellegrinaggio organizzato dalla sezione di Vicenza ha ormai superato di gran lunga la tradizione per diventare un “atto di fede”, lasciando in pianura tutto ciò che non serve, per tornare all’essenzialità. Un atto di fede che nel silenzio dei riti rivela tutta la sua forza; come il saluto sulla tomba del generale Vittorio Emanuele Rossi, per esempio, sepolto dove morirono i suoi alpini, secondo quanto egli stesso aveva chiesto. L’ha capito Beniamino Pizziol, vescovo di Vicenza, che ha celebrato la Messa alla chiesetta votiva di Santa Maria voluta da don Francesco Galloni sull’area sommitale del Pasubio. “Ringrazio gli alpini per l’invito a essere qui, sul Pasubio – esordisce il vescovo – è un luogo carico di profonda memoria, di sofferenza, di sangue e sudore, ma anche di forte aspirazione alla libertà”.

    Salito dalla strada degli Eroi percorrendo a piedi l’ultimo tratto, dal rifugio Papa alla Selletta Comando, mons. Pizziol celebra gli alpini andando subito al nocciolo: “Le penne nere richiamano e testimoniano la virtù dell’umiltà. Sono legate alla terra da uno spirito che nasce dall’essere al servizio degli altri. Per questo motivo v’invito a mantenere salda quest’unione. Vogliamo che questo legame continui nella storia. Grazie per la vostra testimonianza”. Erano presenti sul Pasubio anche una rappresentanza di militari in servizio guidata dal generale di Divisione Gianfranco Rossi e dal capitano Ettore Salfati del 2° reggimento d’artiglieria “Vicenza” di stanza a Trento. “Essere qui significa celebrare un’affinità morale tra i soldati di ieri che lottarono su questi confini, e i soldati di oggi chiamati a difendere l’Italia all’estero, commenta il generale Rossi a margine della manifestazione.

    È una cerimonia importante, che affonda le radici nella storia non solo degli alpini ma dell’intero Paese, tanto più che arriva in prossimità del centesimo anniversario della Grande Guerra”. A dimostrazione di quanto il Pasubio annulli oggi tutte le distanze, non ha voluto mancare alla Selletta Comando una piccola pattuglia di amministratori vicentini e trentini saliti da Schio e Posina, da Torrebelvicino e Valli del Pasubio, da Laghi, Monte di Malo, Marano Vicentino e Creazzo, da Vallarsa e Trambileno. Per comprendere il significato del gesto basti pensare che solo pochi anni fa, trentini e vicentini, guardavano il Pasubio con gli occhi del 1918. “Il nostro primo pensiero va alle penne nere che pur volendo, oggi non sono presenti. Sono la maggioranza, e sono persone che testimoniano ogni giorno con gesti di solidarietà il senso del dovere e la continuità ideale con lo spirito dei soldati che qui combatterono”, dice Luciano Cherobin, presidente dell’ANA Vicenza.

    Ben rappresentata comunque la famiglia alpina: si son contati 11 vessilli e 115 gagliardetti. Presenti inoltre l’ex presidente nazionale Beppe Parazzini e due consiglieri nazionali: Luigi Cailotto e Angelo Pandolfo, segretario del CDN. Alla fine ringraziamenti e applausi sono andati alle penne nere del gruppo di Malo, per l’organizzazione logistica, e al sindaco alpino di Vallarsa Geremia Gios. Il quale, cosa rara per un amministratore pubblico, ha deciso di assumersi tutte le responsabilità di aprire ai veicoli la strada degli Eroi, dopo la chiusura all’ultimo momento degli Scarubbi.

    Federico Murzio