Segnali che inquietano

    0
    55

    Decani (si legge Deciàni) è una piccola città del Kosovo, incuneata tra i monti del Montenegro e dell’Albania. Qui opera la Kfor, ossia la forza Nato, comandata da un generale degli alpini, mandata lì a far da cuscinetto per evitare gli strascichi di una guerra mai dimenticata, che ha visto lo scontro tra le etnie albanese e serba, ancora pronte a misurarsi con le armi del rancore. Alla periferia di Decani, appena fuori dalla città, c’è un monastero serbo-ortodosso, il Visoki Decani, antico monumento medievale del 1300, dichiarato dall’Unesco, nel 2004, patrimonio dell’umanità.

    Dentro una triplice cinta muraria vivono trenta monaci, dediti prevalentemente alla conservazione di un inestimabile patrimonio di icone ed affreschi, oltre che alla produzione di nuove immagini, realizzate con tecniche secolari. Le maggiori agenzie giornalistiche del mondo ci hanno informato che, il mese scorso, ignoti sono penetrati nel monastero arrivando a ridosso delle celle dei monaci. Avrebbero potuto entrare ed uccidere. Per ora si sono fermati lì, lasciando scritte inneggianti all’Isis, con un messaggio inquietante scritto nero su bianco, sulle pareti del monastero: «Il Califfato sta arrivando». Sul fatto ho chiesto ad un monaco una sua opinione. Almeno tre le ipotesi che mi ha suggerito.

    La prima attribuirebbe l’episodio all’odio verso i serbi, da cui ci si è affrancati con la guerra del 1998-99. Una seconda ipotesi vedrebbe invece il farsi strada di un’ostilità crescente verso i cristiani, i crociati, come veniamo chiamati con un certo disprezzo. Tanto più che nella vicina città di Pec stessa sorte è toccata al convento delle suore di Madre Teresa di Calcutta, che serbe proprio non sono. Infine c’è chi vorrebbe vedervi un segnale per le forze militari della Nato, rappresentative di quei Paesi impegnati nella lotta al fondamentalismo islamico dell’Isis. Come per dire: signori, voi ci fate la guerra, ma noi siamo pronti a venire in casa vostra senza che nemmeno ve ne accorgiate.

    A questo punto, cari lettori, vi farete una domanda: e noi alpini cosa c’entriamo? Domanda legittima, la cui risposta rimanda ad una frase che recitiamo nella Preghiera de l’Alpino e che spesso mette qualche inquietudine a qualche amico pacifista: «rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra millenaria civiltà cristiana». Frase certamente impegnativa ma che ci obbliga, almeno per una volta, a fermarci e pensare. Cosa vuol dire difendere la nostra civiltà cristiana? È chiaro che qui non si tratta di tornare alle Crociate e neppure di lasciarsi andare ad una qualunquistica cultura anti islamica. Sarebbe un errore gravissimo. Mettere tutti nello stesso calderone, vorrebbe dire compattare dall’esterno un mondo, che in realtà risulta assolutamente complesso e differenziato.

    Difendere la civiltà cristiana vuol dire prima di tutto prendere coscienza che è importante rafforzare la nostra identità di appartenenza, oggi compromessa da una certa anarchia culturale e da una falso pluralismo, che, di fatto, è solo relativismo. In secondo luogo, vuol dire far chiarezza su quei valori che stanno al fondamento della nostra civiltà. E, tra questi, al primo posto sta il valore della persona, presupposto di ogni vera democrazia, il rispetto dei diritti fondamentali inalienabili, la tutela della donna, la difesa del bene comune come logica di servizio, il valore della famiglia su cui si è fondato anche molto del nostro successo in ambito economico… Tenere duro su questi scenari non è questione confessionale, ma di civiltà. Ed è su questa frontiera che gli alpini hanno molto da dire al Paese e oltre frontiera. Nel pensiero e nei fatti.

    Bruno Fasani