Se il canto musica

    0
    221

    Il dibattito sulla coralità.

    Leggo sempre molto volentieri gli interventi sul tema pubblicati dalla vostra rivista, e mi permetto di esprimere alcune riflessioni da direttore di coro con pratica trentennale dirigendo canto popolare, alpino, classico, polifonico convinto dell’importanza della questione trattata. Credo sia necessario partire da un fatto essenziale: il valore della musica in sé. La musica è arte, e quindi suscita sensazioni, emozioni, sentimenti.

    È questo il filo conduttore che la anima dai tempi dell’antica grecia, fino ai nostri giorni, passando anche geograficamente dai popoli orientali asiatici e americani. Le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, sono un patrimonio privato di ogni singola persona che canta e/o ascolta: ne definiscono i tratti caratteristici psicologici, contribuendo a rendere una persona diversa dalle altre, e, proprio per questo, unica e irripetibile; quindi preziosa nell’attività comune di relazione.

    È un fatto assodato che chiedendo a 100/200/1.000 persone, le emozioni provate durante una esecuzione le risposte saranno tutte alquanto differenti e, se non fosse per la limitatezza del vocabolario, ci troveremmo di fronte a risposte sempre diverse. Un ricordo, un sentimento, un’immagine, un colore, sono le sensazioni più comuni che la musica provoca nell’ascoltatore e nell’esecutore. Purtroppo, per la nostra utilità relazionale, ingabbiamo la musica in classificazioni, in generi, in livelli più o meno alti: facendo questo dimentichiamo che facciamo torto a tutta la musica.

    La musica è indicibile, inclassificabile, è anarchica perché non si sottopone a schematismi o poteri di sorta è libera di essere interpretata. Ridurre la musica a classificazioni, ha portato poco alla volta ad occuparsi più di queste ultime, che di ciò che essa stessa provoca nel profondo. Utilizziamo modelli, il più delle volte stereotipati, fine a se stessi, nei quali ci identifichiamo, che provocano accesi diverbi tra i diversi capiscuola o aderenti tutti protesi a dimostrare che il loro è migliore dell’altro e la musica rimane asettica, prigioniera, priva di qualsiasi possibilità di suscitare emozioni perché, come dice il musicologo torinese Baricco, non viene interpretata.

    Ecco, la musica è lì, straordinario strumento di benessere, che attende solo di essere interpretata, nel campo sonoro attuale. Il canto alpino, nasce e si sviluppa con la coralità, che è uno straordinario laboratorio di condivisione, reciprocità e sintonizzazione vocale ma, permettetemi, l’importante è ciò che si comunica e non l’appartenenza. La natura, le passioni, la morte, la guerra, la quotidianità della vita, l’allegria e il dolore non sono monopolio esclusivo delle cante alpine, ma abbracciano tutta la produzione musicale dall’origine dell’uomo.

    È vero altresì che ogni tipo di musica può diventare segno e distintivo di appartenenza: fare musica classica significa abitare un piano superiore, mentre musica popolare e alpina il piano inferiore?Oppure, canto alpino per gli alpini e canto popolare per tutti gli altri?Mi spiace, ma se continuiamo così, facciamo torto alla musica e alla coralità. E casomai, ciò che distingue gli alpini, non sono le loro canzoni, ma attenzione la coralità. Un’ultima breve considerazione: sento molti che si lamentano che mancano i giovani nei cori alpini. Piuttosto di brontolare e lamentarsi, chiediamoci e chiediamo a loro i veri motivi, avviando un sereno e serio lavoro di riflessione, puntando alla coralità.

    Daniele Guiotto Caerano di San Marco (TV)