Ricordate e raccontate

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    Senza il sacrificio della Julia e della Cuneense, senza Kopanki e Nowo Postojalovka, la Tridentina non sarebbe passata a Nikolajewka quel 26 gennaio di 74 anni fa. Era un martedì ma nessuno se lo ricordava. In pochi conoscevano i nomi dei villaggi, per i soldati fu semplicemente Russia e per coloro che caddero prigionieri, Siberia. «Ricordate e raccontate» erano le parole che il generale Reverberi ripeteva ai soldati usciti vivi dal terribile inferno bianco. 

     

    Gennaio per gli alpini è come un muto richiamo che viene da est. Nowo Postolajowka, Warwarovka, Nikolajewka. Nomi che raccontano centinaia di storie, raccolte in una memorialistica straordinaria capace di riconsegnarci oggi, a oltre settant’anni dai fatti d’arme, lo spessore e il valore di uomini semplici, non letterati, per la maggior parte artigiani, contadini, manovali. Giovanni Riba nato a Cuneo, classe 1919, titolo di studio 5ª elementare.

    “È l’alba del 17 novembre 1945 quando scendiamo alla stazione vecchia di Cuneo. Due suore ci accolgono, ci accompagnano al convento dell’Immacolata. Ricevo un caffelatte, poi esco e vado dal barbiere. Incontro una donna di Caraglio che mi parla di tutta la famiglia, ma non di mio fratello. Chiedo di mio fratello, ma lei cambia sempre discorso. Così capisco che mio fratello dev’essere morto, e non mi faccio fare nemmeno più la barba. Mia sorella mi aspetta al tranvai, dall’altra parte del ponte distrutto, a Confreria.

    Mio fratello Francesco è proprio morto. Quanta gente viene a chiedere notizie. Dapprima dico la verità, ma poi due sorelle si disperano troppo, e allora comincio a dire che non so, che non ricordo. Un disastro raccontare. Anche dalla Toscana arrivano i parenti dei dispersi. Che gramo affare raccontare. Mia madre morirà di crepacuore per la Russia, per la guerra, per mio fratello. Tante cose mi sembrano inverosimili a me stesso.

    Mai avrei pensato di vivere un’esperienza tanto terribile. Molti diranno che questi fatti non sono avvenuti, che sono storie. A volte quasi non credo più nel mio passato”. È una delle tante testimonianze che Nuto Revelli, alpino dapprima nella Cuneense, poi in Russia con il Tirano, raccolse negli anni Sessanta e pubblicò nel libro “La strada del davai”. Una storia intessuta dal basso, casa per casa, seduti al tavolo della stanza principale, quella più calda, dove si mangia, si accoglie chi bussa alla porta, si vive. Le voci impresse sui nastri poi riversati su carta dal “manovale della ricerca”, così amava definirsi Benvenuto detto Nuto, autore di un documento umano prezioso, un intreccio di testimonianze gonfie di rabbia, di tristezza, di rassegnazione; di gente molto spesso malata, inabile al lavoro a causa della guerra.

    Lorenzo Chiappello nato a Montemale (Piana Sottana, Cuneo), classe 1917, titolo di studio 3ª elementare. “A Trieste mi vestono in borghese, mi mettono su un treno. A Verona parlo ancora russo, stento a parlare italiano. Nei Balcani ho sempre viaggiato sui predellini dei vagoni ferroviari. Mi legavo con una corda per poter dormire tranquillo. Così, quando arrivo a Busca, le mie caviglie sono gonfie a forza di stare in piedi. A casa ho un letto morbido che mi aspetta. Ma non chiudo occhio due notti di seguito. Poi, la terza notte, lascio il letto e mi stendo sul pavimento, con su una coperta, e finalmente dormo. Al mattino sto ancora dormendo. Mia madre mi trova steso e si spaventa… Oggi ho la 2ª categoria di pensione di guerra, per il congelamento in Russia e per il cuore spostato da un bombardamento in prigionia. Percepisco 22.010 lire. I tedeschi sono gran briganti.

    I russi sono brava gente, non posso dire male di loro. La popolazione è di cuore, umana. Dal mio foglio matricolare di congedo risultano: anni otto, mesi tre, giorni diciannove di vita militare, cento mesi meno undici giorni!”. Ricordi e racconti che non suonano mai, in nessun caso, come un j’accuse, ma come la cronaca di un destino segnato a cui non fu possibile sottrarsi, affrontato con dignità e compostezza. È la memorialistica di chi visse la guerra in prima persona, voci fuori dal coro, soffocate dal boom economico degli anni Sessanta, che dopo un decennio di silenzio forzato, si rivelarono come l’unico mezzo in grado di restituire merito a una generazione di giovani. A uomini capaci di raccontare cose enormi, tragiche, inimmaginabili con candore e semplicità.

    Una memoria viva, non un pezzo da museo, una sentenza d’onore e di riconoscenza per i sopravvissuti e per le intere generazioni di campagna e di montagna spazzate via dalla guerra. Scomparse per sempre. Vittorio Bellini nato a Demonte (Cuneo), classe 1915, titolo di studio 6ª elementare. “Nevica. Nessuno ad aspettarmi. Scendo dal ponte sottano, m’incammino da solo verso casa. Sulla piazzetta Botteria incontro un amico panettiere, il garzone di Parola, e lo prego di correre ad avvertire mia sorella Celestina. Ma ad aprirgli la porta arriva mia madre, il mio amico si trova in difficoltà, ha paura che l’emozione sia troppo grande. Mia madre, d’istinto, subito gli grida: «C’è Vittorio?».

    La stessa sera casa mia si fa piena di gente, do notizie a tutti, alcune buone, quasi tutte cattive. Ricomincia così la mia vita, la vita di oggi, dell’umile artigiano dell’arte bianca, del panettiere, seguendo una tradizione familiare che si tramanda da oltre un secolo e mezzo di padre in figlio. Non serbo né odio né rancore verso nessuno, perché la vita purtroppo ha i suoi destini, ed il mio destino è stato questo: fare il combattente, cercando di dare il meglio di me stesso per la Patria che amo ancora più di prima”.

    Mariolina Cattaneo