Note in margine a un gran Premio

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    È opinione comune, fra noi alpini, che il premio Fedeltà alla montagna sia il riconoscimento più importante tra tutti quelli conferiti nell’anno dalla nostra Associazione.
    Crediamo che ciò sia profondamente vero: del resto, per rendersene conto, basta leggere il regolamento al paragrafo 1: L’ANA, al fine di valorizzare e tutelare la montagna intesa non solo come ambiente naturale e topografico, ma anche sotto l’aspetto culturale, morale e umano, istituisce il premio Fedeltà alla Montagna . E, al paragrafo 2: Esso è assegnato all’alpino che abbia utilmente operato per la difesa, la valorizzazione e l’arricchimento dell’ambiente, evitato il depauperamento e contribuito al mantenimento, alla prosperità e al potenziamento degli insediamenti umani in montagna .
    Parole profetiche, se si pensa che il premio fu istituito nel 1971 e che ottenne dignità di premio vero e proprio dieci anni dopo, quando a beneficiarne per prima fu l’Associazione Allevatori di Pieve di Livinallongo, composta da alpini della sezione di Belluno. Parole profetiche, dicevamo, perché la situazione della montagna a quei tempi, pur non più rosea, non era ancora giunta al punto di degrado di oggi, sia come allontanamento dai luoghi natii di persone, specie in giovane età, sia come sfruttamento del territorio per fini che nulla hanno a che fare con la vita montanara. Si pensi solo ai guasti che arrecano all’ambiente gli impianti di risalita e le piste di sci costruite, a volte a viva forza, anche in posti del tutto non idonei.
    Era facile, un tempo, vivere per generazioni sullo stesso campo o nella stessa baita, andare per monti con le mandrie a giugno per ridiscenderne a settembre; era accettabile passare la domenica sull’uscio di casa a parlare e parlare instaurando un rapporto umano oggi non più concepibile; a ritenere una partita a carte il massimo dei divertimenti.
    Oggi ci vuole un bel coraggio a rinunciare alle comodità della vita di città, agli agi del fine settimana, alla possibilità di disporre a piacimento del proprio tempo libero. Il tutto per darsi alla cura della campagna con i suoi inflessibili ritmi stagionali, all’allevamento del bestiame secondo orari da caserma, al controllo dei sentieri e delle rogge, alla vigilanza del bosco.
    Eppure, nella nostra montagna, nostra intesa come arco alpino e dorsale appenninica, c’è ancora gente, alpini e non alpini, capace di piegare la schiena per raggiungere la terra che è sempre troppo bassa, o di incuneare la testa nel fianco di una mucca, in alternativa alle mungitrici elettriche, per ricavarne uno dei più completi prodotti che il buon Dio ci ha donato e che poi fabbriche specializzate, in pianura, si incaricheranno di scremare, di smagrire, di adulterare per la gioia dei nostri palati di cittadini che quel mondo non comprendiamo.
    Gente sparsa in tutte le regioni italiane: ce lo dice l’albo d’oro con l’elenco degli alpini premiati: veneti, toscani, lombardi, emiliani, liguri, abruzzesi, fino alla Cooperativa di Tambre d’Alpago ultima della serie (per ora). Gente che non molla e che si ritiene appagata nell’affrontarei problemi della montagna e di saperli risolvere in un contesto di modernità, tesa ovviamente a dimezzare la fatica e a moltiplicare la resa. Modernizzarsi nella tradizione potrebbe essere il loro motto;
    una tradizione che fa sì che il bosco sia tenuto costantemente pulito allontanando il pericolo di incendi o che l’erba di alta quota sia falciata o brucata dalle mucche al pascolo evitando le rovinose valanghe che stanno diventando la caratteristica di zone abbandonate a se stesse.
    Eccola dunque l’opera meritoria di queste persone che, forse inconsciamente, hanno fatto proprio il dettato del regolamento del premio. Così come questa può essere la loro risposta concreta all’Anno delle montagne, celebrato lo scorso anno, che più che forbiti discorsi e ricchi simposi non ha saputo offrire.

    Cesare Di Dato