Non dimentichiamoli!

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    9ottobre 1963: disastro del Vajont. Una delle pagine più buie della storia italica del ‘900 nella quale, quella tragica notte, furono scritti i nomi di quasi duemila innocenti. Tra i primi soccorritori giunse la brigata “Cadore”: 3.488 militari – giovani di leva, sottufficiali e ufficiali – con altri volontari in ben 38 lunghi giorni scavarono spesso a mani nude per estrarre i corpi delle vittime dal fango.

    Ricorda il generale Angelo Baraldo, allora capitano del “Lanzo”: “Abbiamo vissuto operosamente l’impensabile, superandolo senza quasi rendercene conto, anche di fronte alle situazioni emotivamente più dure, tanto era forte e ineludibile lo sprone ad agire… ed in tutto questo abbiamo molto sofferto nell’animo, in un profondo e solidale sentimento di angoscia… noi alpini non ci siamo mai posti limiti temporali ed abbiamo recuperato, nella mestizia, ben 976 morti”. Fu un impatto violento con la morte. Ce lo ricorda Renato Bogo, allora sergente di leva del battaglione “Belluno”: “Per me, giovane poco più che ventenne, fu l’incontro col dolore, quello vero e tragico, talmente grande da segnare per sempre il mio cuore. Nell’immensità di quella devastazione infinita mi sono sentito testimone di una guerra silenziosa, combattuta senza armi e senza possibilità di vittoria contro noi stessi e la nostra presunzione di poter dominare la natura”.

    Cinquant’anni dopo a Longarone e dintorni il dovere della memoria si intreccia, per taluni, con il dolore di una ferita non sanabile, per altri con il tentativo di riconciliazione con uno Stato per troppi anni avvolto nella cappa fumosa di silenzi, mezze verità, parole fuori luogo, ammorbidimento di responsabilità ancorché sanzionate dalla Magistratura. Il disastro del Vajont è paradigma di tanti mali italiani: inefficienza, impreparazione, superficialità. Ma, peggio ancora, di brama di lucro. Così furono sacrificate vite umane in nome di un “progresso” che invece si chiamava profitto: l’interesse è un rullo compressore che schiaccia anche esseri viventi! Ma la storia ha già emesso la sentenza, così come il tribunale de L’Aquila. Su questo versante, nulla da aggiungere. Cinquant’anni dopo, però, dal punto di vista di noi alpini va rilevato che, da sotto il fango del Vajont, spuntarono le radici di una nuova coscienza.

    Come tutte le radici fece fatica a farsi strada, trovò ostacoli, ma progredì grazie all’esempio di quei soccorritori. Sono le radici della Protezione Civile, e non solo quella dell’ANA, che tredici anni dopo ricevette il battesimo del fuoco in Friuli. Ci sono voluti migliaia di morti e feriti, alluvioni e terremoti a ripetizione per passare dall’incultura dell’emergenza alla cultura della prevenzione. In mezzo stanno impegno, spirito di sacrificio, abnegazione di tanti nostri volontari che hanno scritto pagine memorabili di solidarietà. È vero: è stato pagato un prezzo troppo alto, ma oggi possiamo dire che qualche passo avanti è stato compiuto sul piano della preparazione all’evento calamitoso e dell’efficacia degli interventi. Se così non fosse stato, se la tremenda lezione del Vajont fosse stata del tutto disattesa, con quale coraggio oggi potremmo andare a pregare al cimitero di Fortogna dove riposano le vittime di quel disastro?

    I soccorritori fecero la loro parte, oltre ogni umana aspettativa, meritandosi l’appellativo di “Angeli del Vajont”. Ora tocca a noi tutti. Istituzioni e semplici cittadini. Quelle vittime innocenti ci chiedono non solo la pietà umana e cristiana del ricordo. Dimenticarli o rinchiuderli nella loro pagina di storia, rimettendo il libro al suo posto sullo scaffale, equivarrebbe a ucciderli una seconda volta. No, quelle vittime ormai da troppo tempo ci chiedono soprattutto un sussulto di dignità. Glielo dobbiamo. E allora gridiamo ad alta voce la condanna, senza se e senza ma, del crimine compiuto contro l’intera collettività il 9 ottobre 1963! Spesso si dice: natura ostile, montagna assassina. No, lassù sul Vajont l’assassino non fu il monte Toc, ma l’uomo.

    Dino Bridda