Nel DNA dell'alpino c' l'amore

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    di Giovanni Lugaresi

    Io sono uno di voi…’. In questa espressione del vescovo alpino Cesare Bonicelli, pronunciata in apertura dell'omelia tenuta nella Messa dell'adunata nazionale di Parma, si coglieva sì l'affermazione di una identità, ma anche una sorta di fraterna apertura a tutto il grande popolo delle Penne Nere, la consapevolezza di appartenervi: di essere parte, insomma, di una realtà che nelle sue dichiarazioni ideali e morali, e nelle sue pratiche manifestazioni, affonda le radici nei valori cristiani.

    E il ‘suo’ essere alpino, poi, monsignor Cesare Bonicelli, il cui largo, amabile sorriso, ha caratterizzato la sfilata del 15 maggio, quando lo si è visto marciare per ben due volte: con la sezione di Bergamo, e con quella di Parma, quel suo essere alpino, si diceva, lo ha spiegato nell'intervista che ci ha concesso. Monsignor Cesare Bonicelli, che è nato a Bergamo nel 1932, ed è cugino di un altro presule, già ordinario militare, pure lui di prette origini bergamasche (Gaetano) presenta una biografia sorprendente, emersa durante la nostra conversazione. Ma ecco il botta e risposta che abbiamo avuto con lui.

    Quando e come ha conosciuto gli alpini, la loro realtà, la loro storia?

    ‘Li ho conosciuti col sangue dei miei genitori, perché le loro famiglie erano di… alpini. Ho avuto due zii morti nella Grande Guerra: uno era artigliere alpino, l'altro ufficiale, e la penna nera l'avevamo dunque in casa. Ancora: mio fratello maggiore, ufficiale medico’.

    Ma il suo approdo, per così dire, nel Corpo degli Alpini, in quale circostanza è avvenuto?

    ‘Conclusi gli studi superiori e conseguita la laurea in giurisprudenza nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si trattava di rispondere alla chiamata per il servizio militare ed io non potevo non presentare domanda di arruolamento negli Alpini. Ecco, quindi: Scuola allievi ufficiali ad Ascoli Piceno e a Cesano nel 1956 1957, poi l'assegnazione alla Brigata Orobica, 5º reggimento (Edolo) in quel di Merano Caserma Rossi, dove rimasi dal giugno 1957 al gennaio 1958’.

    Ricordi particolari di quel periodo, di quella esperienza, ne ha conservati?

    ‘Ricordi?Come in tutte le cose importanti, non ci sono singoli fatti, episodi, ma, direi, l'atmosfera che si respira… quella, sì’.

    Si spieghi: in quale tipo di atmosfera si trovò a operare?

    ‘Un'atmosfera di solidarietà, di fraternità, del vivere insieme come esperienza altamente positiva. La naja è una grande scuola di vita, perché vi si impara a convivere con persone diverse; si instaura un clima di tolleranza; insieme si affrontano le difficoltà…’.

    È dunque, un'esperienza molto molto positiva, se così la sente ancora oggi.

    ‘Certamente. Del resto, virtù del tempo è abbellire ciò che non esiste più…’.

    Come vede la situazione degli alpini ai giorni nostri?

    ‘Vedo negativo, in generale, il fatto che la leva obbligatoria non ci sia più. Lo Stato moderno dovrebbe dire al giovane: dai un anno della tua vita agli altri. Quindi: servizio civile, servizio militare, e quant'altro, anche come risposta, direi, ad una società individualista tesa al facile successo’.

    A quanto pare di capire, quindi, una lancia spezzata a favore della coscrizione obbligatoria.

    ‘Mi è capitato, in quei mesi di servizio a Merano, di comandare una compagnia di 250 uomini, e soltanto trenta di loro erano altoatesini; il resto proveniva da altre parti d'Italia… Un fatto positivo, secondo me, questo mischiare e amalgamare etnie e culture di tutta la penisola’.

    Per restare a quei mesi da ufficiale, ha mai pensato ad intraprendere la carriera militare?

    ‘Già allora avevo la domanda di che cosa fare della mia vita. Prima della naja facevo politica, ero dirigente scout, impegno nel volontariato. Quei mesi costituirono il 'tempo per pensare', come credo sia accaduto ad altri, al futuro. E avevo una ipotesi: di dare la mia vita al Signore, ma come?Ebbene, la mia vocazione al sacerdozio maturò proprio durante il servizio militare, tant'è che quindici giorni dopo il congedo entravo in seminario’.

    Vediamo, allora, perché il quadro della personalità del vescovo alpino Bonicelli ne esca completo, al dopo .

    ‘Ordinato sacerdote nel 1962, agli alpini ero comunque rimasto strettamente legato, tanto che all'adunata di Bergamo di quell'anno, chiesi e ottenni dai superiori il permesso di partecipare alla sfilata: cosa ripetuta nel 1986, sempre in occasione dell'adunata nazionale nella mia città’.

    E dopo la sacra ordinazione, volendo riassumere in estrema sintesi, le sue attività pastorali?

    ‘A Roma mi laureai in diritto canonico nella Pontificia Università Gregoriana, quindi, vescovo di San Severo di Puglia dal 1991 al 1996. E qui a Parma ci sono dal 1997’.

    I rapporti con le penne nere parmensi?

    ‘Benché io resti iscritto alla sezione di Bergamo, per ovvi motivi, devo dire che con gli alpini della mia diocesi sono in rapporti molto cordiali; sono stato invitato a diversi incontri e a feste sezionali e ci sono andato volentieri’.

    Penne nere di ieri, penne nere dei nostri giorni: come le vede, oggi?Che cosa rappresenta, insomma, per Lei, oggi, la figura dell'Alpino?

    Per me l'immagine dell'alpino è quella di un uomo che affronta i rischi e le difficoltà della vita, e dà il suo contributo per superarli. Nel Dna dell'alpino c'è l'amore alla terra e nell'esercito, inteso come fatto di popolo, la figura dell'alpino è centrale… Certo, oggi, nell'esercito ci sono gli specialisti.., altre cose. Ed è un'altra cosa … .

    E fermiamoci qui, con il vescovo Cesare Bonicelli, che tiene in gran conto quel cappello con la penna nera: che vide da bambino in casa, che poi indossò negli anni Cinquanta, e col quale lo si è visto sfilare a Parma nella 78ª adunata nazionale ANA. Fermiamoci qui, non prima, peraltro, di avvertire che il suo motto di presule è: ‘Nec videar dum sim’, il cui significato, in italiano, recita: ‘Nulla per apparire, tutto per essere’. Che, guarda caso, era il motto del 5º Alpini!