Lavoro per maestri di vita

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    Lavoro per maestri di vita A settembre si tirano le somme dei nostri incontri estivi, quelli che potremmo chiamare, senza forzature, gli appuntamenti con la storia. Adamello, Ortigara, Contrin, Monte Piana, Pasubio, Monte Grappa, Col di Lana, Monte Tomba… Per molti si tratta di nomi sconosciuti, per tanti altri punti topografici e niente più. Primo Levi diceva che la memoria dovrebbe essere il segnalibro dentro la storia.

     

    Per noi alpini essa non è solo un debito di gratitudine. Prima ancora, è l’humus che alimenta la coscienza e tiene vivo il senso di responsabilità civile. Diceva Confucio: «Studia il passato, se vuoi prevedere il futuro». Segno che solo sapendo cosa è accaduto alle spalle si possono evitare gli errori di rotta. Oggi la storia non sembra godere di grande salute.

    Soprattutto quella più vicina a noi, che costituisce il nostro passato prossimo. Spesso chi dovrebbe farla conoscere per professione arriva a corto di ossigeno, ossia di tempo per svolgere il programma, fermandosi sulla soglia del XX secolo. Altre volte la preoccupazione ideologica diventa predominante, scegliendo cosa raccontare, spiluccando qua e là, in funzione delle tesi che si vogliono far passare nei cervelli. Il risultato è che molti giovani oggi conoscono ben poco del nostro passato recente.

    E, quand’anche lo conoscano, spesso lo considerano assolutamente ininfluente rispetto al vissuto di tutti i giorni, dove più che le idee contano i mercati. E, molto sovente, i supermercati. Eppure conoscere la storia è fatto indispensabile. Alessandro Manzoni diceva che «non sempre ciò che viene dopo è progresso». Tutto dipende da quanto si vuole far tesoro del passato. Confondendo il nuovo con il meglio, con un ottimismo tanto ingenuo quanto stupido, abbiamo finito per credere che davanti a noi arrida sempre la Terra promessa, salvo trovarci improvvisamente prigionieri della stoltezza di politiche dal fiato corto e senza memoria.

    Non mi risulta che ad un esame di maturità sia mai stato assegnato un tema sulla Repubblica di Weimar. Rivisitarla, storicamente parlando, potrebbe risultare essenziale per il presente. In una società messa in ginocchio da una guerra e dalla conseguente crisi economica e dalla instabilità sociale, anche allora – e parliamo degli anni dal ’19 al ’33 – il Governo pensò bene di raschiare le tasche dei cittadini per risanare i bilanci dello Stato.

    Crebbe il malcontento. Crebbero i nazionalismi. Gli estranei furono visti come ladri di pane e, alla fine, l’avvento dell’uomo forte fu salutato come l’irruzione del messia liberatore. Sarebbe interessante fare un’analogia in filigrana con il presente, alle prese con una Europa sfilacciata e una Brexit che garrisce come bandiera per tutti i nazionalismi nascenti, a partire dai Paesi dell’Est, ripiegati sempre più su loro stessi e sempre più ostili a coloro che sono indicati come i nuovi ladri di pane. Raccontare la storia deve tornare ad essere un dovere.

    E non solo nei discorsi commemorativi, quando ci raduniamo presso i luoghi delle guerre passate. Ma per raccontarla, prima bisogna conoscerla. Non a spanne, o per sentito dire. Solo conoscendola per davvero essa riuscirà ad affascinarci, mettendoci in condizione di travasarla nell’intelligenza e nel cuore delle nuove generazioni. E sia chiaro che i piccoli saranno i primi ad esserne stupiti. Non solo affascinati dai fatti, ma prima ancora, ammaliati dalla passione del nostro racconto.

    L’importante è che sapere di storia non si presti alla monotonia dei so-tutto-io, degli snocciolatori di cronaca che ti fanno evadere col pensiero appena partono col turbo delle chiacchiere. E neppure si presti alla retorica di un trionfalismo senza concretezza. La storia va raccontata con verità senza mistificazioni, e nei suoi nessi di causa ed effetto. Lavoro per maestri di vita.

    Bruno Fasani