La grande cavalcata

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    L’alpinista e cartografo Julius Payer era uno dei soldati più felici dell’esercito austriaco, in quel giorno del 1865 quando Franz Kuhn von Kuhnenfeld, il vecchio generale avversario di Garibaldi allora diventato ministro della guerra, gli aveva consegnato l’incarico di disegnare la carta geografica di tutto il Gruppo Ortles-Cevedale per conto dell’Imperial Regio Istituto Geografico Militare. «È fatta!» si era detto il giovane tenente boemo appena appresa la notizia. Nei suoi anni futuri c’era ora un mondo quasi totalmente inesplorato: labirinti glaciali, cime inviolate, valli in parte mai percorse, morene, e angoli sconosciuti. Molte importanti lacune cartografiche dovevano essere fugate, e nelle zone sconosciute – dove gli antichi latini avrebbero liquidato i misteri geografici con la convenzionale scritta “hic sunt leones” – lui stesso avrebbe dovuto avventurarsi e con pazienza assegnare nuovi toponimi.

    Un’avventura irripetibile, da affrontare con i pesanti teodoliti e tre commilitoni messi al suo servizio. Cosa poteva chiedere di più dalla vita un venticinquenne innamorato di ghiacci e carte geografiche, e con una responsabilità così importante sulle spalle? Payer voleva libertà d’azione, nuove scoperte e avventure. Ma non esattamente come quella che gli capitò il 21 settembre 1867. Vestito con i pesanti indumenti d’alta quota, quel giorno si trovava sull’aerea cresta nei pressi della cima del Tresero, e con lui la guida Johann Pinggera di Solda camminava sulla neve con passo sicuro. In bilico sui tremila, Julius e la guida vedevano gli scivoli ghiacciati partire a precipizio sotto i loro piedi, sui entrambi i lati della cresta. Quando tutto avvenne in un attimo. La neve cedette. E i due alpinisti presero a scivolare. La velocità aumentò.

    Precipitavano sempre più rapidi, rimbalzando come corpi inermi sulla parete. Non c’era niente che li potesse fermare. Fu un volo lunghissimo: 300 metri. Fin quando atterrarono su un grosso rigonfiamento di neve fresca accumulato dal vento che miracolosamente attutì il colpo. Niente, non si erano neppure feriti. Così Payer pensò di essersi salvato grazie alla mano provvidenziale di un santo, e ritornato nello studio dove sul tavolo da disegno attendeva la sua carta, scrisse un nuovo toponimo sulla cima della montagna che aveva appena scalato (in seconda ascensione): «Punta San Matteo », come il nome del santo del giorno. Oggi la Punta San Matteo (3.678 m) viene ripetutamente raggiunta dagli alpinisti impegnati nella traversata delle Tredici Cime, il grande viaggio per creste che in diversi giorni (fino a cinque, la durata del percorso dipende dall’allenamento e dalle condizioni della montagna) unisce, con qualche variante, le due “porte” contrapposte del massiccio: il Passo dello Stelvio al Passo del Gavia (o viceversa), proprio lungo le montagne disegnate da Payer. In linea d’aria le due “porte” si trovano a meno di 20 chilometri, ma il viaggio prevede ripetuti saliscendi, cambi di direzione e digressioni, per seguire il filo arcuato delle catena, aggirare ostacoli, aggiungere nuove visioni panoramiche, inanellando un dislivello complessivo di oltre quattromila metri.

    È una delle più spettacolari “alte vie alpinistiche” di tutto l’arco alpino, tra la grandiosa imponenza delle cime salite e scese in una successione continua di prospettive mutate. Ma soprattutto, la cavalcata delle Tredici cime rappresenta un viaggio nel viaggio, perché ogni vetta è una traccia di storia ritrovata, un nuovo osservatorio da dove posare l’occhio su altre montagne generose di trame e nomi del passato. Per la cronaca, le campagne di rilevamento erano continuate quattro stagioni consecutive. Il tenentino aveva salito in successione più di sessanta cime, una ventina delle quali ancora vergini, completando la prima carta geografica del Gruppo (in anticipo di una ventina di anni su quella che verrà realizzata dai geografi italiani, in particolare dal milanese Pietro Pogliaghi). Payer diverrà anche un esploratore del Grande Nord, in Groenlandia ci sono i 2.133 metri di una montagna chiamata la Payerspitz. E si distinguerà anche con l’uso della penna.

    Venivano accolti con un certo entusiasmo i suoi scritti carichi di humor apparsi nel periodico tedesco “Petermanns Geographische Mitteilungen”. Memorabile il racconto della salita all’Ortles, quando scrisse: «Dal sublime asilo di una cima montuosa ci si rammenta a malapena del via vai e della calca di uomini là sotto: a noi quassù non arriva alcun suono, vediamo il teatro delle loro azioni e sorridiamo filosoficamente, estraniati per qualche attimo dalla profana trivialità, sul microcosmo della loro esistenza».

    Marco Albino Ferrari

    Giro sull’Ortles-Cevedale

    I primi salitori del Cevedale furono Julius Payer, Johann Pinggera, Josef Reinstadler, il 7 settembre 1865. Oggi, data la facilità d’accesso, il Cevedale è la meta più frequentata da scialpinisti e alpinisti. Attenzione però a non sottovalutare i pericoli del ghiacciaio. Anche le frequenti nebbie possono essere causa di pericolo. La traversata al Palon de la Mare è la prima parte della famosa traversata delle Tredici Cime, che per il suo fascino è considerata una delle vie più belle delle Alpi. La cresta nevosa e le roccette da superare rappresentano il tratto più delicato del nostro anello.

    Dal rifugio Casati si segue la pista verso il Cevedale. L’ultimo ripido tratto si supera obliquando verso destra, e seguendo il filo di neve si tocca la sommità del Cevedale. Si continua su facili rocce fino alla Punta Nord-est (3.757 m), chiamata anche Zufall-Spitze e ci si abbassa infine alla larga sella nevosa di quota 3698 metri che precede la cresta sudovest, attraversando una roccia prima del punto più basso della cresta, al Cevedale. Dalla cima ci si abbassa per la cresta nevosa fino al Passo Rosole (3.502 m), seguono rocce sfasciate che portano al Monte Rosole (3.536 m) e la successiva discesa al bivacco padre Giancarlo Colombo al Monte Rosole (3.485 m). Si tocca il Col de la Mare (3.442 m).

    Ora inizia la discesa continuando su un primo tratto lungo la nevosa cresta sudovest, per calare a destra nel circo glaciale pianeggiante ai piedi della vetta. Sulle rocce di sinistra si trovano resti di baraccamenti della Grande Guerra. Con un ampio giro si scende al plateau sottostante, lo si traversa e si scende nel suo margine sinistro, fino a un canale che porta nei pressi della morena della Vedretta dei Forni, dove si trova il sentiero che porta al rifugio Branca (2.493 m).