La Dodicesima Battaglia – Da Caporetto al Piave

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 La Dodicesima Battaglia – Da Caporetto al Piave –  24 ottobre – 9 novembre 1917

 “CHI NON RICORDA NON VIVE”

Premessa.

La 12a Battaglia dell’Isonzo, passata alla storia con il nome tristemente famoso di “Battaglia di Caporetto”, è legata strettamente  alla 11a Battaglia dell’Isonzo, più nota con il nome di Battaglia della Bainsizza (17 agosto – 13 settembre 1917) e  alla crisi dell’Intesa del 1917 che iniziò in Francia con i contrasti fra Governo e Comando Supremo, a seguito  del fallimento della disastrosa “Offensiva Nivelle” (16 aprile 1917), che determinò disordini generati da violente campagne antimilitariste scatenate dai partiti di sinistra ed episodi di ammutinamento fra le Grandi Unità francesi e con la profonda crisi della Russia che causò la caduta dello Zar II e successivamente l’uscita della Russia dal conflitto.

In considerazione di un possibile cedimento della Russia, nel luglio del 1917, durante la “Conferenza Interalleata di Parigi”, gli alleati chiesero all’Italia di effettuare un ulteriore sforzo offensivo allo scopo di impegnare sulla fronte italiana l’esercito austriaco per dare la possibilità alla Russia di riorganizzare il proprio esercito.

Sulla base di quanto concordato alla conferenza di Parigi con gli alleati, il generale Cadorna organizzava la 11a Battaglia dell’Isonzo per conquistare con la 3a Armata l’Altopiano di Comen per sfociare a Trieste e con la 2a Armata l’Altopiano della Bainsizza, la Selva di Tarnova ed eliminare il pericoloso saliente di Tolmino. La direttrice d’attacco principale era l’Altopiano della Bainsizza.

L’offensiva, la più importante dagli inizi del conflitto sul fronte italiano, iniziò il 17 agosto e si concluse il 13 settembre.

Ricordo che nell’intermezzo tra la 10ª Battaglia dell’Isonzo (dal 12 maggio al 6 giugno) e la 11ª Battaglia si svolse sull’Altopiano di Asiago la sanguinosa Battaglia dell’Ortigara la quale ebbe notevoli conseguenze, sia materiali che morali nella prosecuzione delle operazioni nel settore dell’Isonzo (in quella battaglia le perdite furono di circa 30.000 uomini di cui 15.000 solo alpini).

Con la Battaglia della Bainsizza l’esercito italiano, attraverso estenuanti e sanguinosi attacchi, conquistò l’Altopiano della Bainsizza ma non riuscì a realizzare l’obiettivo strategico, comunque inflisse perdite gravissime all’esercito austro – ungarico che non fu più in grado di sostenere un’altra offensiva di analoga intensità.

La vittoria conseguita, senza aver raggiunto gli obiettivi prefissati, costò però un caro prezzo al nostro esercito: 166.000 uomini di cui 40.000 fra morti e dispersi. Essa non riuscì a risolvere i nostri problemi più importanti: l’occupazione dell’Hermada, del San Gabriele e il pericoloso saliente della testa di ponte di Tolmino che rappresentava una grave e costante minaccia alle spalle dello schieramento della 2a Armata italiana.

Anche in Italia dopo la sanguinosa battaglia della Bainsizza si manifestarono fra i soldati sintomi di crisi simili a quelli dell’esercito francese: una forte depressione morale causata dalla lunghezza della guerra, dalla propaganda antimilitarista, verbale e scritta dei neutralisti clericali e socialisti, dall’acuirsi della propaganda nemica, dal logoramento morale e materiale della truppa, nonché dai lutti di decine di migliaia di soldati che avevano concorso ad abbassare lo spirito di resistenza.

La situazione nell’ottobre del 1917.

Nell’autunno del 1917 l’esercito austro – ungarico, con la perdita dell’Altopiano della Bainsizza, aveva subito un colpo durissimo. L’esercito asburgico dopo aver subito nell’anno in corso ben tre nostre offensive sul fronte dell’Isonzo, era ridotto allo stremo delle sue forze tanto che le autorità militari e politiche erano convinte di “non poter resistere ad un dodicesimo attacco italiano sul fronte dell’Isonzo”.

Al scopo di eliminare la grave situazione venutasi a creare sulla fronte delle Alpi Giulie e per evitare uno sfondamento da parte italiana lungo la direttrice di Trieste (agognato obiettivo delle offensive italiane) l’Austria chiese aiuto all’Alleato tedesco.

Il 29 agosto, il generale von Waldstätten e il generale Arz von Straussenburg, si presentarono presso il Comando Supremo germanico per richiedere aiuto all’alleato. Lo Stato Maggiore tedesco, di fronte al duro colpo subito dall’esercito austro – ungarico sulla fronte dell’Isonzo, avvertì la necessità di sostenere lo stremato alleato allo scopo di evitare un possibile crollo dell’esercito austro – ungarico, la cui sconfitta avrebbe di colpo neutralizzato tutti i successi conseguiti dalla Germania sino a quel momento.

Dopo una meticolosa ricognizione eseguita nei primi giorni di settembre dal generale Krafft von Dellmensingen nel settore dell’Alto Isonzo per individuare i tratti più deboli dello schieramento italiano, l’8 settembre, venne firmato un accordo tra il Comando Supremo austro – ungarico e il Comando Supremo germanico per sanzionare l’offensiva sul fronte dell’Alto Isonzo.

L’intervento tedesco fu favorito da una serie di eventi concatenati quali la grave crisi dell’esercito russo e, sul fronte occidentale, la prolungata inattività dell’esercito francese schierato sulla difensiva.

Il tratto prescelto dal Comando Supremo germanico per l’applicazione dello sforzo fu l’ala destra della 2a Armata italiana e in particolare il saliente di Tolmino (ove gli austriaci avevano una robusta testa di ponte oltre la destra del fiume) e la conca di Plezzo, un settore debolmente presidiato dalle truppe italiane e con insufficienti riserve schierate alle spalle della prima linea.

Ricordo che nell’ottobre del 1917 lo schieramento delle nostre forze aveva, salvo qualche eccezione, un carattere prevalentemente offensivo con tutte le artiglierie ed i servizi logistici proiettati a ridosso delle prime linee, mentre le riserve d’armata gravitavano nella zona di Tarcento – Cividale.

La preparazione dell’offensiva.

Per l’offensiva venne costituita la 14ª Armata – con 7 divisioni tedesche e 8 austroungariche – con una serie di reparti e servizi di supporto, appoggiata da 1.830 pezzi di artiglieria, 400 bombarde, oltre 1000 tubi lanciagas, sotto il comando del generale tedesco Otto von Below, prussiano, comandante di elevata esperienza bellica, coadiuvato dal capo di stato maggiore generale Konrad Krafft von Dellmensingen, bavarese, già eccellente comandante della famosa Divisione Alpenkorps.

Per questa operazione offensiva fu costituito un Comando Supremo del fronte sud – occidentale agli ordini dell’Arciduca Eugenio di Asburgo, sotto la direzione personale dell’imperatore Carlo I. Di questo fronte facevano parte la 14ª Armata austro – germanica (settore dal Monte Rombon a Log situato a sud di S. Lucia) ed il Gruppo di Armate Boroevic (da Log al mare nei pressi di Monfalcone) con la 1ª e 2ª Armata dell’Isonzo, la 106ª Divisione Landsturm più tre divisioni di riserva schierate dal Monte Rombon al mare. Il compito della rottura del fronte fu affidato alla 14ª Armata austro – germanica.

Il piano operativo del generale von Below per gli scopi che si era prefisso di raggiungere su quel terreno montuoso e accidentato dal punto di vista tattico e strategico era ardito e geniale: “Il nemico deve essere sloggiato dalla zona del Carso – Alpi Giulie e ricacciato dietro al Tagliamento. La 14ª Armata effettuerà uno sfondamento della fronte nemica fra Plezzo e Tolmino tramite un’ offensiva principale condotta da Tolmino con obiettivo, in un primo tempo Caporetto, e subito dopo percorrere la Valle del Natisone e conquistare Cividale, contemporaneamente una offensiva sussidiaria in direzione della conca di Plezzo – stretta di Saga e attraverso la Valle dei Musi e del Torre piombare in pianura a Tarcento e dopo, in pochi chilometri, raggiungere Udine. L’Armata riceverà concorso dalla 10ª Armata (gen. von Krobatin) in zona Carnia e dalle Armate dell’Isonzo, in particolare dal contermine Gruppo Kosac della 2ª Armata del generale Boroevic”.

L’Armata di von Below aveva previsto di attuare il metodo di attacco sperimentato con successo a Riga sul fronte russo e cioè attacco delle fanterie dopo una breve ma intensa preparazione di artiglieria della durata di 5 ore effettuata con proietti dirompenti e a gas diretti prima sugli schieramenti di artiglieria e posti comando (per 3 ore) e dopo, per due ore, tiri di distruzione sulle posizioni di prima e seconda linea; indi penetrare attraverso le brecce aperte dal fuoco concentrato dell’artiglieria in profondità con poche colonne d’assalto dotate di un elevato spirito di iniziativa lungo i fondi valle o a mezza costa, senza preoccuparsi delle difese in quota, le quali sarebbero cadute per manovra od eliminate successivamente dai reparti di seconda schiera.

L’organizzazione difensiva delle forze italiane.

Il fronte italiano tra il Monte Rombon e la Bainsizza era organizzato su tre linee di difesa:

1. una prima linea di occupazione avanzata, permanentemente guarnita dalle nostre truppe;

2. una seconda linea di resistenza ad oltranza;

3. una terza linea di Armata.

Le ultime due non erano occupate. In alcuni punti le prime due si riunivano e ne formavano una sola (come fra il M. Vrsic e il Monte Nero).

A nord di Tolmino la prima e la seconda linea erano completamente sulla sinistra dell’Isonzo e la linea correva lungo la dorsale M. Vodil – M. Mzrl – M. Sleme – M. Nero – M. Vrsic, conca di Plezzo – Monte Rombon.

Davanti a Tolmino le nostre truppe erano schierate sulla destra del fiume e fronteggiavano la robusta testa di ponte austriaca imperniata sui due colli di Santa Maria e Santa Lucia.

La linea di difesa avanzata era la più debole e non era ancorata su nessuna posizione forte del terreno (salvo sul Monte Vrsic – Monte Nero); essa era costituita sulle posizioni raggiunte dagli ultimi attacchi sferrati dalle nostre fanterie.

Il terreno su cui la linea si snodava era stato imposto, quasi ovunque, dalla difesa nemica, che la dominava per vasti tratti rendendo la vita estremamente difficile ai nostri soldati nelle trincee.

La seconda linea di resistenza ad oltranza era stata costruita su punti del terreno naturalmente forti ed era stata rinforzata da trincee e ricoveri. Se fosse stata permanentemente occupata il nemico avrebbe trovato molte difficoltà nel superarla.

La terza linea o linea d’ Armata si sviluppava su elementi del terreno molto robusti, ma non era presidiata. Nel complesso, il sistema di linee di difesa era veramente forte, ma la sua forza si basava sulla seconda e terza linea, per le quali non era stata prevista la presenza permanente di reparti per il suo presidio.

Schieramento dell’Esercito Italiano.

Al termine della Battaglia della Bainsizza lo schieramento dell’esercito italiano era di carattere offensivo. La massa delle forze gravitava fra Tolmino e Monfalcone:

– 42 divisioni fra Monte Rombon e il mare su 70 chilometri di fronte;

– 20 divisioni su tutto il resto del fronte (530 chilometri). La 2a Armata disponeva in totale di 353 Battaglioni (315 di fanteria, 24 di bersaglieri e 14 alpini, 2430 cannoni di ogni calibro e di 1134 bombarde), ripartiti in nove Corpi d’Armata. In particolare, il tratto di fronte tra il Monte Rombon Monte Nero – Gabrjie (a nord di Tolmino) era difeso dal IV Corpo d’Armata (Comandante Gen. Cavaciocchi) con le Divisioni 34a, 43a, 46a e 50a . Il tratto di fronte a cavallo dell’Isonzo compreso tra la riva destra del fiume da Gabrjie (esclusa) – saliente austriaco di Tolmino sino a Kal sull’Altopiano della Bainsizza era difeso dal XXVII Corpo d’Armata (Comandante Gen. Badoglio) con le Divisioni 19a, 22a, 64a e 65a.

L’articolazione delle forze austro – germaniche.

Lo schieramento sul campo di battaglia delle forze austro – germaniche secondo il disegno di manovra prevedeva da nord a sud:

  1. Il Gruppo Krauss (I Corpo d’Armata austro-ungarico): 4 Divisioni di fanteria (22ª Schützen, 55ª austro-ungarica, 3a Edelweiss più la Divisione Cacciatori tedesca). Il Gruppo era schierato fra il M. Nero ed il M. Rombon; doveva esercitare uno sforzo sussidiario;
  2. Il Gruppo Stein (III Corpo d’Armata bavarese) schierato dal M. Nero a S. Maria di Tolmino su 4 Divisioni di fanteria (50ª austro – ungarica, 12ª Slesiana, Deutsche Alpenkorps e 117ª tedesca) con il compito di esercitare lo sforzo principale;
  3. Il Gruppo Berrer (LI Corpo d’Armata germanico) schierato da S. Maria a S. Lucia di Tolmino con 2 Divisioni di fanteria germaniche (200ª e 26ª);
  4. Il Gruppo Scotti (XV Corpo d’Armata austriaco) posizionato all’estremità meridionale della fronte dell’Armata, sulla riva destra dell’Isonzo da S. Lucia di Tolmino a Log, con 2 Divisioni (1ª Divisione austro – ungarica e la 5ª Divisione di fanteria tedesca);
  5. Dietro a disposizione del Comando della 14ª Armata vi erano altre 3 Divisioni di fanteria austro – ungariche (4ª, 13ª Schützen e 33ª).

In complesso erano 164 battaglioni, 9 squadroni, 2180 pezzi di artiglieria, oltre 1.000 tubi lanciagas, 44 compagnie lanciafiamme, 10 squadriglie di aerei, 32 compagnie tecniche e consistenti unità del genio.

Allo scopo di nascondere i preparativi dell’offensiva gli Imperi Centrali arrestarono le unità in afflusso a diverse tappe dalla prima linea in modo da evitare grossi concentramenti di truppe e artiglierie sulle retrovie della fronte Giulia. Le forze vennero radunate nella zona di Klagenfurt, Villach e di Lubiana ad alcune tappe dalla prima linea, e vi rimasero a riposo fino al 15 ottobre.

Qualche giorno prima dell’offensiva, le grandi unità, sfruttando le caratteristiche del terreno, il buio della notte, le pessime condizioni meteorologiche con presenza di nebbia e frequenti piogge nelle vallate, raggiunsero le basi di partenza per l’attacco.

Per trarre in inganno il Comando Supremo italiano, la Divisione Alpenkorps, prima di raggiungere il fronte dell’Alto Isonzo, fu avviata nel Trentino, per attirare l’attenzione del generale Cadorna con lo scopo di convincerlo di una possibile offensiva nemica in quel settore del fronte.

La 14a Armata doveva attaccare un tratto di fronte difeso da sole 4 Divisioni italiane (19a, 46a, 43a, e 50a ). In particolare contro i due nostri tratti di fronte più pericolosi (saliente di Tolmino e conca di Plezzo) difesi, il primo dalla 19a Divisione e il secondo tratto difesi dalla 50a Divisione gravitavano 4 Divisioni contro la 19a Divisione e 3 Divisioni contro la 50a Divisione. Contro queste quattro divisioni, che difendevano un tratto di fronte di 57 Km., si scatenò il fuoco micidiale di 1150 cannoni e 250 bombarde.

Il generale Luigi Capello, comandante della 2ª Armata, il cui settore andava dal M. Rombon a Gorizia, aveva schierato le sue riserve prevalentemente a sud di Tolmino, in zona Cividale – Cormons, orientate ad operare offensivamente dalla Bainsizza, mediante un contrattacco in direzione nord – ovest, nonostante che il 18 settembre 1917, oltre un mese prima dell’attacco nemico, il generale Cadorna, con lettera n° 4470, inviata ai Comandi della 2ª e 3ª Armata, avesse dato l’ordine di prepararsi alla difensiva ad oltranza su tutta la fronte.

Sul modo di affrontare l’offensiva nemica c’era una divergenza di opinioni fra il generale Cadorna e il generale Capello. Essendo anche le riserve del Comando Supremo disposte nell’area compresa fra Cividale, Udine e Palmanova, ne derivava che dietro la 2ª Armata e, in particolare, del IV Corpo d’Armata vi erano poche riserve in condizioni di arrestare una eventuale penetrazione nemica.

Solo più tardi il IV Corpo d’Armata ebbe il rinforzo di una divisione che dislocò in riserva nei pressi della stretta di Saga e Caporetto, mentre il VII Corpo d’Armata costituito da due divisioni, venne dislocato in riserva a difesa dell’abitato di Robic e Monte Matajur.

Anche le artiglierie avevano conservato uno schieramento prevalentemente offensivo, nonostante che il generale Cadorna avesse ordinato un arretramento della maggior parte di esse, soprattutto quelle di medio e grosso calibro predisponendole ad assumere uno schieramento difensivo.

Il 24 ottobre il mancato rischieramento delle artiglierie della 2a Armata determinò la perdita di ben 43 batterie di cannoni e obici di medio calibro.

Vale la pena di evidenziare che il generale Cadorna il 10 ottobre, con lettera n° 4741, in considerazione che ormai era stato accertato che gli austro – tedeschi stavano preparando una potente offensiva fra Tolmino e la Bainsizza, ordinava al generale Capello “di attuare, con urgenza, tutti quei provvedimenti intesi a fronteggiarla in modo adeguato”.

In particolare ordinava che sull’Altopiano della Bainsizza rimanessero, fra le artiglierie di medio calibro, solo quelle più mobili e fossero predisposte anche per queste i mezzi più adatti per un ordinato ripiegamento, prescriveva, inoltre, che durante il bombardamento nemico si svolgesse una violentissima nostra contropreparazione.

La Battaglia. L’attacco austro – tedesco fra Tolmino e Plezzo.

Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 la 14a Armata austro – tedesca, agli ordini del generale tedesco Otto von Below, in presenza di una fitta nebbia e piovaschi, sferrava l’offensiva (denominata “Waffentreue” – “Fedeltà d’Armi”) contro le linee italiane in corrispondenza delle conche di Plezzo e Tolmino, considerate dal generale Krafft von Dellmensingen, capo di stato maggiore dell’Armata, le posizioni più deboli dello schieramento avversario in quel settore del fronte, con l’obiettivo di raggiungere il fiume Tagliamento. Solo poche nostre batterie reagirono al fuoco nemico. Questo avvenne perché il generale Badoglio comandante del XXVII Corpo d’Armata aveva tassativamente ordinato di aprire il fuoco solo su suo preciso ordine. Intervento che avvenne a penetrazione già avvenuta dei reparti di fanteria tedeschi.

Alla destra del 14a Armata operava la 10a Armata austro – ungarica mentre a sud della 14a Armata agiva il Gruppo d’Esercito del generale Boroevic da Gorizia sino al mare.

L’azione lanciata con nuovi procedimenti tattici sconosciuti all’esercito italiano: breve e terrificante preparazione di artiglieria nelle retrovie, lancio di granate con gas fosgene sulle posizioni di Plezzo che provocò la morte di 800 fanti della Brigata Friuli e infiltrazioni di reparti scelti autonomi nei fondi valle alle spalle dei reparti italiani, nel giro di poche ore apriva una consistente breccia in corrispondenza di Tolmino ad opera della 12a Divisione Slesiana e della Divisione Alpenkorps bavarese che, protetti dalla nebbia di fondo valle, risalendo la valle dell’Isonzo, dopo aver sopraffatto due compagnie della Brigata Napoli, con grande rapidità piombarono, nel primo pomeriggio, alle spalle delle linee avanzate italiane presidiate dal IV Corpo d’Armata, a Caporetto, determinando il ripiegamento dei resti del IV Corpo d’Armata in corrispondenza della stretta di Saga e Monte Stol.

Nella giornata del 25 ottobre le falle aperte in corrispondenza di Plezzo, Caporetto e Tolmino si allargarono sempre di più, al punto che divenne impossibile arrestare la rapida avanzata nemica. In questa giornata il Battaglione da montagna Württemberg al comando del Capitano Erwin Rommel, allora ventiseienne, conquistò la dorsale del Monte Kolovrat, sulla quale era investita la linea di Armata, e catturò 1500 soldati. Sotto la pressione del Gruppo Scotti, anche il Monte Jeza, difeso strenuamente dalle Brigate Taro e Spezia cadde in mano nemica.

Il giorno 26 i tedeschi conquistavano Monte Matajur e Montemaggiore e così cadeva il perno di difesa della 2a Armata; si aprivano così le vie per Cividale e Udine. Più a sud i resti del ricostituito XXVII Corpo d’Armata teneva il tratto di fronte dal fondo valle Judrio al Monte Korada, un punto importantissimo perché bloccava al nemico l’aggiramento strategico delle Grandi Unità schierate fra Cormons, Gorizia e il Carso che consentiva alle unità della 3a Armata di ripiegare dietro all’Isonzo.

Il mattino del 27 ottobre il nemico occupava Cividale e in seguito al precipitare degli eventi il generale Cadorna dava l’ordine di ripiegamento dietro al fiume Tagliamento alla 2a e 3a Armata e alle truppe della zona Carnia. Purtroppo molti reparti non ricevettero quell’ordine a causa della distruzione dei posti comando e delle centrali telefoniche colpite dalle fuoco nemico. Inoltre prevedendo la possibilità di dover ritirarsi sul Piave, diede alcune disposizioni ai comandanti di Armata per prepararli a quella difficile operazione.

In seguito ai disastrosi avvenimenti il 27 ottobre il debole Ministero Boselli dava le dimissioni. Il 31 ottobre subentrava al Governo l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando. Al Ministero della Guerra al posto del Generale Gaetano Giardino subentrava il Generale Vittorio Alfieri.

Il pomeriggio del 28 cadeva Udine. Il 29 e 30 ottobre i nostri reparti iniziavano una disperata resistenza davanti ai ponti del fiume Tagliamento per proteggere il ripiegamento della III Armata ed imporre un tempo di arresto al nemico. Difronte alla schiacciante superiorità nemica il generale Cadorna il 4 novembre, ordinava la ritirata generale al Piave e sul Monte Grappa, dove il 10 iniziava la vittoriosa Prima Battaglia di Arresto sul Piave, la più cruenta, la più lunga e la più eroica per le nostre truppe.

Durante quella drammatica battaglia (passata alla storia come Battaglia di Caporetto) l’esercito italiano subì perdite gravissime valutate a 10.000 morti, 30.000 feriti, 300.000 prigionieri (in gran parte della 2a Armata), 3200 pezzi di artiglieria, 1730 mortai e bombarde, 2800 mitragliatrici, 70.000 mila quadrupedi, e enormi quantità di munizioni, materiali, viveri e di approvvigionamenti di ogni tipo. L’Esercito ebbe, inoltre, 350.000 sbandati che poi vennero raccolti e recuperati.

La sera del 28 ottobre, dopo aver raggiunto Treviso, il generale Cadorna, firmava il Bollettino di Guerra con il quale imputava la sconfitta alla “mancata resistenza di reparti della 2a Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Con quell’ infamante Bollettino di Guerra il generale Cadorna addebitava a reparti della 2a Armata la responsabilità della rotta di Caporetto e non a errori del suo Comando che fu incapace di comprendere la situazione operativa in atto, impostare e condurre con fermezza la battaglia difensiva.

Il Bollettino fu direttamente diramato, come era consuetudine, all’estero, mentre veniva trasmesso a Roma.

La sconfitta di Caporetto fu un evento tragico che lasciò segni indelebili sugli avvenimenti del nostro paese: soldati e popolazione civile delle province occupate pagarono un enorme tributo di sangue, di sofferenze e di distruzioni. Nel giro di poche ore la guerra travolse il destino di centinaia di migliaia di soldati e di oltre 800mila profughi civili delle province di Udine, Treviso, Belluno, Venezia, Vicenza mediante furiosi combattimenti innescati in ogni paese, nei casolari, lungo le strade, davanti ai ponti dei fiumi. L’avanzata dei soldati austro – tedeschi fu accompagnata da saccheggi e violenze contro le popolazioni inermi rimaste compiute dall’invasore che si impossessava delle misere scorte alimentari dei contadini, depredava gli animali nelle stalle per poter cibarsi (molti reparti erano senza viveri), compiva violenze fisiche e stupri sulle donne, uccisioni gratuite e requisizioni d’ogni genere.

Interessante leggere la viva testimonianza lasciataci da Cesco Tomaselli, capitano del Battaglione Alpini Belluno, nel suo libro “Gli ultimi di Caporetto”, dove descrive le dolorose vicende della ritirata. Durante quella fase di rottura del fronte le forti genti della Carnia, del Cadore, del Friuli e del Veneto, affrontarono l’imprevista situazione con grande dignità, sostenendo i nostri soldati che andavano incontro al baldanzoso nemico.

Al rovescio militare contribuì anche in parte il disfattismo che si era diffuso nei mesi precedenti fra il popolo e alcune unità combattenti fortemente provate dalle pesantissime perdite di vite umane e il distacco fra lo Stato e vasti settori della Società, nonché dall’attività di alcuni partiti sovversivi incoraggiati dalla rivoluzione russa e dall’iniziativa del Papa Benedetto XV impegnato a promuovere iniziative di pace fra i governi dei popoli belligeranti.

Sulle montagne e davanti ai ponti del Tagliamento numerosi furono gli episodi eroici dei nostri soldati che si sacrificarono sul posto per consentire il ripiegamento del grosso delle armate italiane e per arginare le incalzanti avanguardie nemiche tese all’occupazione dei ponti stradali e ferroviari.

Desidero ricordare gli atti di valore più significativi compiuti dai reparti di ogni arma e specialità durante quelle drammatiche giornate. Eroico fu il comportamento del Battaglione Alpini Val d’Adige nella difesa di Monte Ieza, e dei valorosi fanti della Brigata Potenza in difesa di Montemaggiore e il generoso ed eroico impegno degli alpini e dei bersaglieri che sul Costone di Pleca per 36 ore fermarono l’avanzata di una Brigata austriaca da montagna. E ancora il mattino del 28 ottobre la 2a Divisione di Cavalleria sul fiume Torre, fra Godia e Udine, resisteva eroicamente per agevolare la ritirata della 3a Armata e i resti della 2a Armata. E ancora il Reggimento Cavalleggeri di “Saluzzo” combatté valorosamente a Beivars e a San Gottardo, a est di Udine, perdendo più della metà della sua forza.

Il 29 i Reggimenti Lancieri “Aosta” e “Mantova” fermarono le avanguardie nemiche a Fagagna, mentre gli Squadroni di Cavalleria “Roma” e “Monferrato” arrestarono gli austro – ungarici a Pasian Schiavonesco, nei pressi di Udine. Leggendaria l’eroica resistenza dei Reggimenti “Genova Cavalleria” e “Lancieri di Novara” della 2a Brigata di Cavalleria agli ordini del generale Giorgio Emo Capodilista e di reparti della Brigata “Bergamo” a Pozzuolo del Friuli che si sacrificarono per proteggere il ripiegamento della 3a Armata, così come la generosa resistenza dei Granatieri di Sardegna a Lestizza e l’ accanita lotta della Brigata “Bologna” schierata sul Monte di Ragogna a difesa del ponte di Pinzano: per tre giorni resistette coraggiosamente agli assalti furibondi dei tedeschi del Gruppo Krauss che volevano conquistare il ponte di Pinzano.

Il 1° novembre a San Daniele del Friuli il Gen. Otto von Below concesse ai resti della Brigata Bologna l’onore delle armi.

Nella notte fra il 2 e il 3 novembre gli austriaci, dopo furiosi combattimenti, riuscirono a passare sul ponte ferroviario di Cornino e si spinsero verso sud per penetrare nel nostro dispositivo difensivo. Il Generale Cadorna vista la critica situazione all’alba del 4 novembre diede l’ordine generale di ritirata al Piave. E sul Piave iniziò la prima grande battaglia per opporsi all’invasore. Lo schieramento dell’Esercito sul Piave era molto più razionale, più solida e la nostra situazione sia dal punto di vista strategico che tattico, era più sicura rispetto a quella sull’Isonzo.

“Di molti di questi eroi immolatisi per la Patria” affermò Cesco Tomaselli, ufficiale degli alpini che visse sulla sua pelle la ritirata con il Battaglione Belluno “non si saprà il nome, non si conosceranno mai le gesta: segnalati ai comandi superiori con l’equivoco termine di dispersi, essi sono i più ignoti fra gli ignoti, perché nessuno è tornato di chi li vide cadere, nessuno può riscattare le loro memorie e solo la madre, che sa di averli educati alla legge del dovere, coltiva nel suo dolore l’orgoglio di pensarli non indegni di quella uniforme che essi onorarono cadendo”.

Nella notte del 3 novembre la 4a Armata (generale Nicolis Di Robilant) che difendeva il Cadore, per evitare la manovra di aggiramento avversaria, iniziò il ripiegamento con l’ordine di organizzare la difesa del Monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell’Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave.

Nonostante il disastro subito l’esercito ed il Paese ritrovarono la forza e la volontà di resistere e di combattere sul Piave con grande coraggio e alto senso di responsabilità.

Il Piave divenne il fulcro e il simbolo della volontà di riscossa di tutto il popolo italiano. In quella gravissima situazione, affluirono in trincea i giovanissimi ragazzi della “classe 1899” (250.000 ragazzi). Quegli eroici ragazzi con coraggio e tenacia tennero testa al nemico sino all’estremo sacrificio.

Il mattino del 9 novembre, nel momento culminante della ritirata, il Comando Supremo dell’esercito fu improvvisamente assunto dal generale Armando Diaz che si assunse subito l’arduo compito di elevare l’efficienza dell’esercito ed il morale delle truppe che appena avevano subito una disastrosa ritirata.

L’indomani dell’assunzione del comando iniziava la Battaglia di Arresto. Una battaglia durata ininterrottamente per 15 giorni superata e vinta grazie all’alto spirito delle nostre valorose truppe. Una durissima, sanguinosa battaglia combattuta senza l’aiuto dei nostri Alleati che erano dislocati nei pressi Mantova, Verona e Lago di Garda in attesa fosse raggiunta una situazione che garantiva la loro sicurezza.

I nostri soldati presero coscienza della gravità della situazione e si sacrificarono sul posto per arrestare l’invasore. “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”, quella frase scritta da un umile soldato ignoto su una casetta diroccata era il testamento di tutti i soldati aggrappati sul Piave. Il sangue versato dai nostri valorosi Soldati salvarono l’esistenza e l’onore della Patria.

L’offensiva austro – tedesca terminava il 21 dicembre, oltre non le era stato possibile avanzare in virtù della forza di volontà e della tenacia dei nostri valorosi soldati. Sul Monte Grappa i nostri fieri avversari si trovarono di fronte un nemico diverso da quello incontrato a Caporetto, un avversario che nel giro di pochi giorni aveva cambiato volto e spirito.

Le cause della sconfitta italiana a Caporetto si debbono ricercare nel Comando Supremo che non riuscì a percepire che la nostra situazione strategica, in seguito alla defezione della Russia, era radicalmente cambiata, che non individuò il momento, il punto di rottura prescelto e le modalità tattiche dell’avversario e inoltre non modificò lo schieramento dei nostri reparti posizionati su una linea tattica e strategica offensiva.

L’assunzione su buone posizioni difensive ci avrebbe consentito di acquisire grandi vantaggi e di potere arginare l’avanzata nemica più a lungo anche se inferiori di forze.

Altri elementi contribuirono a facilitare il successo nemico il 24 ottobre: l’ampio uso dei proietti a gas fosgene, specie nella conca di Plezzo, il mancato intervento delle artiglierie del XXVII Corpo d’Armata del generale Badoglio, il quale si era riservato di impartire personalmente l’ordine di intervento al nuovo comandante dell’artiglieria colonnello Cannoniere (700 pezzi di medio e grosso calibro) ma che al momento di aprire il fuoco non fu in grado di impartire gli ordini a causa della distruzione di tutti i mezzi di comunicazione; la manovra di accerchiamento della 12a Divisione slesiana che a Caporetto piombò alle spalle del IV Corpo d’Armata la quale decise le sorti della battaglia.

Altra causa fu il ritardato impiego della riserva del Comando Supremo e delle riserve di Armata in corrispondenza dello sfondamento, nonché l’atteggiamento controffensivo in atto dei reparti della 2a Armata nonostante il generale Cadorna il 18 settembre avesse emanato ordini per organizzare la difesa a oltranza delle posizioni. La sconfitta di Caporetto fu essenzialmente militare e generata dalla sorpresa in campo strategico subita dal Comando Supremo. La sconfitta subita dagli italiani non fu certo più grave di altre sconfitte subite dai nostri alleati francesi, inglesi e russi e dai nostri avversari durante la Prima Guerra Mondiale.

Gli eserciti dei Paesi alleati ebbero disastri ben più gravi della ritirata di Caporetto; più gravi sia per perdita di territorio che per perdite di uomini, di mezzi militari e popolazione civile: ricordo la Battaglia di Gorlice – Tarnow, nel maggio 1915, dove i russi fecero una ritirata di 380 chilometri, persero Varsavia e accusarono gravissime perdite di soldati e artiglierie; la pesante sconfitta subita dagli anglo – francesi da parte dell’esercito turco, nel marzo – agosto 1915, a Gallipoli nello Stretto dei Dardanelli; la disastrosa offensiva del generale francese Nivelle, nell’aprile del 1917, che fallì miseramente subendo 180.000 perdite fra morti e dispersi con ammutinamenti di intere divisioni; l’offensiva tedesca della Somme e delle Fiandre, nel marzo del 1918, che causò agli anglo – francesi la perdita di 330.000 soldati fra morti, dispersi e feriti e di 209.000 prigionieri e allo Chemin des Dames, nel maggio del 1918, dove i tedeschi sfondarono il fronte e nel giro di una settimana penetrarono in profondità per oltre 100 chilometri. Prima di chiudere questo articolo desidero riportare un alto apprezzamento sulla nostra resistenza sul Piave e sul Grappa del generale tedesco Krofft von Dellmensingen, Capo di Stato Maggiore della 14a Armata austro – tedesca, che nel suo libro dove trattava la rotta di Caporetto si espresse con queste parole:

“così si arrestò, a poca distanza dal suo obiettivo, l’offensiva tanto ricca di speranze, ed il Grappa diventò il “Monte Sacro” degli Italiani. Di averlo conservato contro gli eroici sforzi delle migliori truppe dell’Esercito austro – ungarico e dei loro camerati tedeschi, essi, con ragione, possono andare superbi”.

La vittoria austro – tedesca dell’ottobre del 1917 rappresentò un grande successo tattico, ma si dimostrò un insuccesso strategico, poiché quella battaglia non riuscì ad annientare l’esercito italiano che dopo quella sconfitta, insieme al popolo, sul Piave reagì vigorosamente per combattere l’ultima battaglia del Risorgimento.

Caporetto fu una battaglia perduta: esattamente un anno dopo, l’Italia a Vittorio Veneto, sconfiggeva definitivamente le armate austro – ungariche creando le premesse per la fine anticipata del lungo e sanguinoso conflitto mondiale.

Generale B. Tullio Vidulich