L’uomo dei due fronti

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    È secco, essenziale, come chi ha consumato emozioni e fisico sull’altare della vita. Ti scruta discreto e silenzioso, come uno stratega che indugia prima di decidere. Poi apre la porta della confidenza con un sorriso pieno di intelligenza e simpatia. E anche di furbizia. E lì capisci perché la fortuna non solo ha aiutato il percorso di questo uomo, ma come questo uomo sia stato fondamentale perché la fortuna potesse fare effetto. Di Augusto Di Loreto mi avevano parlato durante un incontro con i ragazzi delle scuole abruzzesi, strappandomi una promessa: quella che l’avrei incontro durante i giorni dell’Adunata. Arriviamo a Civitella Roveto sul far della sera. Le case sembrano una manciata di briciole cadute dalla mensa di Dio dentro un catino di verde. Come se il mondo fosse tutto lì. L’orizzonte chiude sulle creste che tutt’intorno fanno da merletto alla natura.

    Poco oltre c’è la terra dei Marsi e poi il parco, terra di lupi e di orsi. Più a Sud la strada che porta sulle terre laziali, luogo di scontro tra Papi e Borboni. Terra aspra, dove bisogna imparare presto a chinare la schiena e ad asciugare il sudore. Ma anche terra di ingegno. Qui nacque il padre di Enrico Mattei, e il figlio vi tornò per portare lavoro, non tradendo mai le proprie radici. Soprattutto terra di alpini. Marco, già Capogruppo, che mi fa da guida, mi porta prima di tutto a vedere il monumento agli alpini. Come si va ad un santuario. Dopo il terremoto del 2009 l’hanno ampliato e modificato. È un monumento scenografico: da una casa crollata un alpino esce con una bambina salvata dalle macerie. È un inno alla vita, ovvero la vocazione degli alpini. Poi l’incontro con il nostro reduce. Augusto Di Loreto mi sta davanti con l’autorevolezza dei suoi 92 anni. È lucidissimo, ma si schernisce dicendo che non ricorda. Ma è solo l’emozione per quel momento di celebrità, consumato lontano dalla scene familiari dove ha ripetuto mille volte la storia del suo passato. Un passato iniziato come fante sul fronte greco albanese. Non ha ricordi clamorosi di quello spicchio di guerra.

    L’unica cosa che tiene a dirci è che ha trovato sul posto tanta gente buona. Lo ripeterà anche per la gente di Russia: quante persone buone! E a chi lo ascolta viene un dubbio: ma davvero erano tutti buoni o era Augusto che aveva qualche marcia in più per farsi voler bene? E non è che quello spilungone, bello e intelligente, facesse presa sulle ragazze, anche per via di quella faccia da rubacuori? Augusto mangia subito la foglia, si gira verso la moglie e rassicurandola sussurra: ho sempre voluto bene solo a lei. In guerra, il nostro reduce, lo mandano come marconista, il che gli consente di evitare la prima linea, là dove si cade come le mosche. Ma questa specializzazione sarà anche il motivo per cui finirà tra gli alpini. Rientrato a Bari dall’Albania, fa un ulteriore corso di specializzazione, quindi lo mandano a Bergamo dove gli dicono che il fronte russo lo aspetta. Per la prima volta indossa un cappello alpino e per la prima volta incontrerà l’inferno di un’esperienza che lascerà per sempre il segno nella sua vita. Ripercorrere l’esperienza russa con Augusto è come entrare in un museo. Scene fisse dentro cornici che ne evidenziano la drammaticità.

    Quadri isolati tra loro, slegati da riferimenti cronologici, perché le emozioni camminano da sole, come la memoria che le cattura. Ricorda il primo Natale, vicino a don Gnocchi “bravissimo prete, profondamente umano”. «Era la Messa della vigilia e noi tutti intorno ad assistere, quando iniziarono a scoppiare le bombe. Don Carlo, come se la cosa non lo riguardasse pensò ai soldati. Li fece mettere pancia a terra fintanto che fosse finito l’inferno. Nessuno di noi fu ferito », ricorda Augusto, lasciando intendere che anche dall’alto Qualcuno ci aveva messo lo zampino. Poi le memorie del nostro reduce corrono sulle sponde del Don, dove veniva mandato coi tedeschi a piazzare le mine anticarro, quelle piatte per i tank più grossi, ad imbuto per i più piccoli. Non sempre le cose andavano per il verso giusto e allora bisognava tornare indietro con un ferito sopra le spalle. Secondo la logica oggi a me, domani a te, anche per Augusto si preparavano giorni crudeli.

    La ritirata era iniziata, con i 42 gradi sottozero che aumentavano disperazione a disperazione. Ogni isba diventava un’ancora di salvezza potenziale. Ma non sempre le cose andavano per il verso giusto. Toccò ad Augusto l’isba sbagliata. Dentro, invece di una zuppa calda o una patata da mettere sotto i denti, trovò un gruppo di soldati russi. Senza tanti complimenti gli chiesero sigarette. Lui tolse dalla tasca il pacchetto, speranzoso che quel gesto avrebbe risvegliato sentimenti di fratellanza. Peccato che il pacchetto presentasse i segni inconfondibili del Fascio. «Fascista, kaputt!» fu la condanna a morte ripetuta più volte come un’eco sinistra dentro le povere mura di quella casa.

    Uno ad uno i soldati russi imbracciarono il fucile, pronti all’esecuzione. Augusto, con un gesto felino, dettato dalla disperazione, imbracciò il primo fucile che gli capitò tra le mani e si mise a sparare all’impazzata. Poi scappò fuori senza neppure sapere cosa era realmente accaduto. Ma intorno c’era solo silenzio e sopra l’isba la morte faceva le sue danze. Ci provò la morte a fare fuori anche lui. Ci provò a Nikolajewka. Fu tra un fuoco di granate. Uno di quei momenti in cui ti senti solo, come se il mondo non esistesse più. Poi il dolore improvviso di un pezzo di fuoco che ti entra nella carne. Una piastra incandescente che ti brucia senza darti tregua. Augusto, con una gamba spezzata, si trascina carponi per un giorno e una notte. «A pecorone», come dice lui. Le mani sono anch’esse congelate e ormai l’idea di restare là per sempre si impadronisce della sua mente. Quando improvvisamente sente un “beeeeeh”.

    È il suo sergente che sorridendo lo rincuora vedendolo procedere a pecoroni. «C’è una slitta Augusto. Sopra c’è un altro alpino. Non so se sia già morto. Comunque adesso i cavalli ci portano a casa». Arrivato in Italia, lo portano a Loano, dove un dentista, senza anestesia, gli amputa il piede. Ma non pulisce la cancrena, che continua a procedere inarrestabile. Di lì a poco gli taglieranno la gamba fino al ginocchio. Ma Augusto non ne fa un problema. Munito di una protesi, dirà che per il resto della vita non gli è mancato nulla. Ha continuato ad andare a caccia e a camminare su per le montagne, come se niente fosse. Come fanno gli alpini. Come fanno gli uomini di valore.

    Bruno Fasani