Il primo giorno di guerra

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    Paesi e contrade correvano via. I colori della campagna si inseguivano, sfumavano lenti come i pensieri e le paure che si facevano più concrete con l’avvicinarsi della meta. Ma a vent’anni l’ingenua incoscienza cela i pericoli maggiori, si affida a un ego che si sente forte e immortale. La guerra era nell’aria, ora bisognava entrarci da protagonisti. Il viaggio durò parecchio. Da ovest a est, il finestrino del treno come uno schermo trasmetteva paesaggi. Contrade, alture, campi. E poi le Alpi, sempre le Alpi. Giovanni Marino era partito per la guerra da Dronero, ai piedi della Val Maira per raggiungere il capo opposto dell’Italia. A piegare la cartina in due, per il verso verticale, quasi si baciavano il suo paese e la Val Degano, in Alta Carnia.

    Montagna era montagna, neppure molto diversa da quelle che vedeva scostando la tenda di casa. Non più Roccerè né Pelvo d’Elva, ma Monte Volaia, Monte Crostis, Passo Sesis. Rocce metamorfiche attraversate da falde paurose, gigantesche placche che al tramonto nella luce radente si fanno fredde d’un grigio metallico. Il 24 maggio 1915, quando il nemico si attestò al passo di Val d’Inferno, Giovanni era lì, arruolato nella 19ª compagnia del battaglione Dronero, insieme ad altri valligiani cuneesi, a un mantovano e a un giovane di Roma. Per lo più tutti reduci della guerra di Libia. Non erano passate neppure ventiquattro ore dalla dichiarazione di guerra e arrivò l’ordine di attaccare gli austriaci: “Siamo giunti alla 1,30 del giorno 25, siamo subito andati all’assalto per occupare il Passo e alle ore 15 il Passo era in nostro possesso. Abbiamo subito costruito trincee e abbiamo passato tutta la giornata sotto una tempesta di piombo nemico”.

    Così riporta Giovanni nel suo diario, qualche riga per ogni giorno di guerra. Trentacinque uomini della 101ª compagnia erano stati reclutati per l’azione, al comando del sottotenente Pietro Ciochin. Si presentarono volontariamente anche due guide borghesi di Forni Avoltri. Si lanciarono all’attacco con il favore delle tenebre. Ciochino, ferito a un braccio, fu costretto a cedere il comando al graduato più anziano Bartolomeo Delpero che poco dopo cadde ucciso. Avanti la truppa con il caporal maggiore Antonio Vico di Montù Roero che guidò gli uomini contro la trincea nemica. L’impatto fu violento, una mischia orribile e furiosa. Alla fine gli alpini ebbero la meglio e conquistarono alla baionetta la postazione austriaca eliminando buona parte del presidio e catturando 25 uomini. Alle prime luci del giorno seguente venne puntuale il contrattacco. Gli austriaci costrinsero gli italiani a ripiegare e a stabilizzarsi sulla linea del Monte Navagiust.

    I feriti fra gli alpini furono numerosi tanto da dover chiamare in aiuto il medico condotto di Rigolato che prestò soccorso sotto il fuoco nemico. Nei giorni seguenti, all’ospedaletto da campo le barelle disposte con ordine correvano l’una accanto all’altra. Insistenti bisbigli celavano la notizia di una visita inattesa. Dopo qualche ora arrivò al capezzale dei feriti Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III accompagnato dal generale Porro. Accostandosi a Vico chiese notizie circa l’attacco del primo giorno di guerra e il giovane caporal maggiore, che era solito parlare in dialetto, rispose: «I l’oma fait polissia» (abbiamo fatto pulizia), inconsapevole che quella frase sarebbe diventata, di lì a poco, il motto del battaglione Dronero.

    Il Re decorò motu proprio Vico, Marino, quindici altri alpini, le due guide borghesi e il medico condotto con medaglie d’argento e di bronzo al Valor Militare. Fu una pausa, una parentesi in mezzo a una guerra che era solo all’inizio. Giovanni Marino la visse tutta, combatté sul Monte Nero, sul Rombon fino all’epilogo vittorioso sul Monte Grappa. Il suo diario ci racconta un’esperienza difficile che ora possiamo fare nostra, come preziosa testimonianza. Una cronaca spietata di morti e valanghe, di freddo e di lunghe marce. Una sorta di terapia che mette il dramma nero su bianco, con lucidità come a demonizzare la paura. Sono pagine di guerra. La Messa del Cappellano, anche per gli ammalati, davanti a un altarino da campo malconcio, in bilico sulle rocce; la valanga di 2.000 metri che inghiotte la Casera e, in un colpo, dieci alpini. La brevissima licenza a Rigolato, dopo cinque mesi di trincea: «oggi sono contento perché finalmente ho potuto mangiare una buona insalata di pomodori».

    Mariolina Cattaneo