Identità e valori collettivi

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    Il 21º convegno della stampa alpina di Biella ha completato un percorso avviato nel 2015 e legato alla necessità di aprire un dialogo con i giovani per facilitare la trasmissione dei valori cari all’Ana e utili alla società. Due anni fa ci eravamo chiesti cosa il mondo alpino avesse da trasmettere ai giovani, mentre l’anno successivo ci siamo focalizzati su che cosa i giovani chiedono agli alpini. Il tema di quest’anno “Il servizio militare come fonte di sicurezza di sé” è stato sviluppato grazie ad uno stimolante dibattito, incoraggiato dal direttore de L’Alpino Bruno Fasani, dalla prof. Gabriella Colla che lavora al supporto dell’Autonomia scolastica presso l’Ufficio provinciale di Novara, dove coordina e promuove progetti sulla cittadinanza attiva, sull’educazione alla legalità, sull’alternanza scuolalavoro, e dal prof. Stefano Quaglia, dirigente dell’Ufficio scolastico Territoriale di Verona, accompagnato da tre giovani di 5ª scientifico: Riccardo Barbieri, Federica Genero e Laurens Lanzillo che hanno fatto toccare con mano la loro realtà e il loro pensiero. 

     

    La sospensione della leva avviene al termine di un processo culturale degli anni Settanta, nato dalla visione che il dopoguerra avrebbe aperto scenari dove imperava l’idea che non ci fosse bisogno di difenderci, perché aveva avuto avvio una vera e propria era della pace. Ma dopo dieci anni la situazione è molto diversa, tanto che dal 2018 in alcuni Paesi, come la Svezia, ritornerà il servizio militare. «Perché è utile tornare al servizio militare? Solo perché siamo nostalgici o perché abbiamo bisogno di difenderci? », si chiede Fasani introducendo l’argomento del convegno. «La leva deve essere intesa come una pedagogia per i giovani per diventare adulti con una grande crescita umana e sociale».

    Il punto di partenza per un confronto che non sia solo teorico è legato alla situazione che stiamo vivendo. E chi meglio di un ragazzo di oggi può dirci in che direzione stiamo andando? Il primo a prendere la parola è Riccardo che con pochi concetti mette tutti davanti alla dura realtà: «L’idea di Patria è decaduta, non è propria dei giovani e valori come unità, impegno, per molti di noi sono poco attrattivi». Tutto ciò, puntualizza Riccardo «non è solo colpa dei giovani, ma è principalmente colpa della società». Come dire che essi assorbono come una spugna dall’ambiente in cui vivono. Per cambiare registro «occorre ritrovare un’idea di nazione e di Stato virtuosi; oggi invece è la famiglia stessa, per prima, a trasmetterli come elementi molto negativi», conclude Riccardo.

    «In effetti questo cambio di orizzonti e di valori è colpa della società che è molto cambiata dal secolo scorso», conferma Fasani. «I ragazzi di oggi non si preoccupano delle cose importanti ma delle cose di facile soddisfazione». Ciò dipende del fatto che l’educazione è cambiata e anche a scuola, che è l’elemento di confronto più prossimo per un giovane dopo la famiglia, l’autorità degli insegnanti si è fiaccata. «Se a scuola il ragazzo faceva qualcosa in modo scorretto il genitore era il primo a farlo notare. Ora il genitore scusa quasi il comportamento del giovane. E quando le figure che devono avere autorità non l’hanno più, ci si educa da soli».

    «Oggi si assiste ad una vera e propria distrazione di natura edonistica – interviene il prof. Quaglia – perché la società ha distolto i ragazzi dai valori di cui parliamo e li ha spostati su altri valori che mirano ai piaceri e alle soddisfazioni materiali». Sul tema della sensibilizzazione civica la prof. Colla aggiunge un dato piuttosto allarmante quando annuncia che «a livello provinciale stiamo sensibilizzando il corpo docente su questi temi, perché il disagio verso il ‘Sistema’ è forte da parte dei ragazzi, ma anche da parte di molti insegnanti». Come dire che la filiera della buona crescita civica rischia di essere guasta se gli insegnanti stessi, che sono i più prossimi dopo la famiglia nella formazione di un giovane, hanno un’idea poco positiva del nostro Stato.

    Il prof. Quaglia evidenzia che oggigiorno non possiamo più approcciarci ai giovani con le logiche del passato, ma il problema è che «non abbiamo ancora elaborato degli schemi idonei a passare i messaggi perché abbiamo una percezione limitata e soggettiva. Dovremmo quindi trovare forme nuove di comunicazione che siano più vicine ai ragazzi. E occorre cambiare pensiero perché questa eredità nata con le Forze Armate diventi un valore per tutti, al di là dell’aver fatto il militare, in modo da riconfigurare una serie di legami che la prassi e la sensibilità comune ha cambiato come è avvenuto, ad esempio, con la sospensione leva».

    «Faresti la naja?», chiede Fasani a bruciapelo. «Beh, sì – risponde Federica – perché mio papà me ne ha parlato bene. Però non la imporrei come obbligo, perché obbligare i giovani è un qualcosa che non funziona, non è gradito». Il mormorio cresce in sala. Interviene Quaglia: «Federica ci dice che una volta aperte le porte è difficile riportare le vacche nel recinto. Non bisogna creare le condizioni di costrizione ma di aggregazione per sensibilizzare i ragazzi. Occorre creare modelli nazionali di lavoro tra Ana e Scuola». Questa necessità deriva dalla constatazione che gli alpini di molte Sezioni e Gruppi già si incontrano con i ragazzi nelle scuole, ma questi interventi sono sporadici e sono legati alla conoscenza personale con alcuni insegnanti o alla spiccata sensibilità di alcuni docenti.

    L’Ana dovrebbe invece stabilire delle convenzioni con la Scuola, come suggerisce anche la prof. Colla: «Si potrebbe definire un protocollo con il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca sulle politiche di orientamento dei vostri valori verso i ragazzi. Ma si potrebbe anche creare appositi meeting tra giovani e alpini o un’app per avvicinarli al vostro mondo, oppure creare una redazione di giovani reporter…».

    Laurens da grande vorrebbe fare il politico e l’equilibrismo nelle sue parole traspare in modo limpido. Lancia lo slogan «strappiamo il cellulare ai giovani e torniamo a risvegliare l’entusiasmo, perché ormai siamo costretti in una realtà virtuale». E quando gli si chiede se «un esercito di soli professionisti nasconda il rischio della perdita dei valori poiché la naja in fondo era gratuita ed era da fare perché lo richiedeva il bene del Paese», risponde: «Ma un servizio gratuito perché deve essere necessariamente quello militare? I militari di professione secondo me oggi sono per lo più legati ad attività di tutela civile. Si potrebbe al massimo pensare ad una leva all’interno di un Corpo di professione».

    «Siamo tutti d’accordo che siamo nati con la leva obbligatoria? Oppure cominciamo a cambiare e diciamo di renderci conto che la leva è un’istituzione superata, cercando così di piacere ai giovani e alla società?». Queste le domande poste dallo “stimolatore” del primo gruppo di lavoro, il past president Beppe Parazzini, per riflettere su tre argomenti cardine: l’identità dell’Associazione, il servizio di leva obbligatorio (due concetti che per i partecipanti coincidono) e le modalità con cui coinvolgere i giovani. La discussione che si è aperta sui primi due punti ha alla base l’idea che l’Ana è l’associazione d’arma più grande al mondo, con l’accento posto sulla parola “d’arma” che significa aver fatto il servizio militare, senza “se” e senza “ma”.

    Al di là delle possibili declinazioni e dei mille scenari che si possono immaginare e proporre per il servizio di leva del futuro è emerso con chiarezza che esso sia un’esigenza imprescindibile per la società e per i giovani, per completare un percorso formativo, sviluppare lo spirito di appartenenza alla nazione, avere un riferimento nazionale come la Bandiera e avere una forma di rispetto maggiore per l’autorità. Sarebbe poi cosa giusta che gli adulti stessi facessero un esame di coscienza e forse bisognerebbe saper parlare non solo ai giovani, ma anche ai loro genitori.

    Anche nel gruppo moderato dal prof. Quaglia è emersa quest’ultima indicazione: «È inutile chiedere ai ragazzi della naja, non l’hanno fatta! Se vogliamo ripristinare la leva dobbiamo convincere gli adulti che decidono di renderla obbligatoria; non devo chiedere ai giovani se sono d’accordo, perché essa per loro diventerebbe semplicemente un dovere». I più pratici suggeriscono di creare Scuole di specializzazione per la Protezione Civile, magari sovvenzionate da Ana ed Esercito, in cui i giovani possano essere utili alla società e trovare una formazione. Altri evidenziano che la leva oggigiorno non sia discorso né attuale, né attuabile perché servono eserciti snelli e professionisti specializzati. Propongono quindi un esercito formato metà da professionisti e l’altra metà da giovani di leva, con compiti e impieghi diversi.

    Il comandante delle Truppe Alpine gen. Federico Bonato, intervenuto nella giornata conclusiva, taglia corto sul tema e afferma che «sarà impossibile tornare ad un servizio di leva come quello di tanti anni fa, ma anche uno ridotto potrebbe essere difficoltoso per quelli che sono la struttura, le responsabilità e gli impegni delle Forze Armate oggi. Già nei primi anni del Duemila i giovani delle regioni del Nord non c’erano più nei nostri reggimenti alpini. Se noi oggi abbiamo ancora due brigate lo dobbiamo a tutti quei giovani del Centro-Sud che nonostante l’obiezione di coscienza prima e la sospensione della leva successivamente, hanno voluto ancora far parte dell’Esercito. Abbiamo 70mila domande all’anno a fronte di 12mila posti e mi rifiuto di credere che i giovani lo facciano solo per un’esigenza lavorativa. Quindi non ho questa percezione così negativa dei giovani e non li vedo senza voglia di fare e poco legati ai valori. È comunque vero che ci sarebbero degli interventi da fare, partendo dalla famiglia, dalla scuola…».

    Il Presidente nazionale Sebastiano Favero ci tiene a precisare la linea dell’Associazione: «Dobbiamo essere realisti. È giusto dire a chi ci governa che è necessario e utile che i giovani siano impegnati a favore degli altri. Ci sono vari modi per sviluppare quest’idea, ad esempio essere di supporto alle Forze Armate». E proprio in quest’ambito il Presidente annuncia che un grande risultato sarà raggiunto a breve grazie alla convenzione tra il Ministero della Difesa e l’Ana sull’impiego dell’Ospedale da campo in ambito militare. Sul concetto del “mettersi al servizio” Favero è chiaro: «Tornare ad una forma di leva come quella che abbiamo vissuto tanti anni fa non sarà possibile, ma dobbiamo combattere perché ai giovani siano cari due elementi fondamentali come l’identità e i valori collettivi», in contrasto con un individualismo marcato in cui diventa importante e meritevole di attenzione la necessità del singolo e non quella della comunità.

    Matteo Martin
    lalpino@ana.it


    È da qualche anno che chiediamo ai partecipanti di dare un giudizio sull’organizzazione e più in generale sugli argomenti trattati in convegno. Il Cisa di Biella ha superato tutti i risultati precedenti: il 90% dei partecipanti hanno gradito l’organizzazione, mentre per il 73% gli obiettivi sono stati raggiunti, precisando che i contenuti dell’incontro sono stati utili per il 28%, ma anche teorici per il 14% dei partecipanti. I buoni risultati sono merito degli alpini della Sezione di Biella e del suo Presidente Marco Fulcheri che ha saputo coinvolgere anche le autorità locali: la senatrice Nicoletta Favero, il Presidente della Provincia Emanuele Ramella Pralungo e il sindaco di Biella Marco Cavicchioli.


    SENZA I DOCUMENTI LA STORIA NON SI PUÒ FARE

    Il convegno è stata anche l’occasione per gli interventi del prof. Nicola Labanca che guida la squadra composta dal dott. Federico Goddi impegnato, su mandato dell’Associazione, insieme ad altri due ricercatori, in una ricerca finalizzata a realizzare uno studio scientifico sulla storia dell’Ana. Il dottor Goddi per quest’anno si occuperà di analizzare la stampa alpina. La difficoltà è che molti dei periodici di Sezione e di Gruppo non sono mai stati depositati nelle biblioteche centrali di Roma e Firenze, elemento questo che rende impossibile un qualsivoglia recupero di memoria storica. Si chiede ai responsabili della stampa alpina di concordare la condivisione delle copie dei loro giornali al Centro Studi.