Dieci anni di naja

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    Agile, svelto, con ottima memoria: sono le maggiori qualità di un alpino che nei giorni scorsi ha compiuto cent’anni. Le prime poppate di Armando Levis avevano il sapore dell’alpinità. Il padre, Piacentino, era un sergente del 1º reggimento alpini che pensava di aver pagato per sè e per la propria famiglia il debito con la Patria nel giugno 1917, sul Monte Ortigara, quando, ferito ad una gamba, rifiutò di abbandonare la posizione conquistata, nonostante il suo superiore gli ordinasse di recarsi al posto di medicazione.

     

    Un comportamento degno della Medaglia d’Argento al V.M., che gli concessero. Il figlio di Piacentino, Armando, nato nel 1915, fu arruolato nella 40ª Compagnia, battaglione Ivrea. Dal 1937 fece diciotto mesi di naja; nel 1939 venne richiamato nel battaglione Val d’Orco e congedato a dicembre, in attesa di richiamo. L’anno seguente era ancora nell’Ivrea, sul fronte occidentale e precisamente al presidio a Séez (Francia), con il compito di caposquadra portaordini della Compagnia Comando.

    Armando ricorda, di questo periodo, un aneddoto curioso e probabilmente unico. Il Battaglione rientrò in Italia e durante la sosta, venne richiesta dai comandi superiori la documentazione riguardante le proposte di encomio per il fronte occidentale. Preparati i documenti, il tenente Edmondo Gatti, aiutante maggiore (fu vice Presidente nazionale dell’Ana negli anni Settanta), incaricò Levis di recarsi al Comando in Francia, dove il colonnello Frati avrebbe dovuto firmare i documenti. Ottenuta la firma e dopo un po’ di riposo, Armando ripartì. Ripercorse i trecento chilometri a ritroso e rientrò al battaglione che si trovava attendato a Riva Valdobbia, in Valsesia. Ma, sorpresa, i documenti andavano modificati in triplice copia, per cui tutto da rifare e con urgenza! La missione aveva la priorità su tutto e quindi gli concessero di utilizzare perfino l’autostop: Valsesia verso Francia e ritorno.

    Dopo Aosta venne sorpreso da un terribile acquazzone e trovò riparo sotto una garitta della Guardia di Finanza, fuori da una vecchia caserma. Mangiò un boccone, fumò una sigaretta e riprese fradicio. Dopo poco sentì un veicolo proveniente da La Thuile. Fuori il pollice per chiedere un passaggio, ma l’autista gli indicò le bandierine diplomatiche, quasi invisibili, arrotolate dalle folate di vento. Aaaattenti, saluto militare e fece per allontanarsi. “Salga pure”, lo richiamò una voce femminile, invitandolo a bordo accanto al posto dell’autista. «Bagnato com’ero – ricorda Levis – non sapevo come comportarmi: tremavo come una foglia al vento. La dolcissima voce mi rassicurò: “Gli alpini non tremano mai; con un alpino andrei in capo al mondo!”, disse la signora, quasi a voler stemperare il mio imbarazzo. Mi voltai verso i sedili posteriori per ringraziare e mi trovai davanti la Principessa Maria Josè».

    Dopo essere giunto sin dove la macchina lo poteva portare scese con una grande soddisfazione, salutando militarmente e ringraziando. «La Principessa mi porse la mano e con dolcezza mi augurò giorni lieti e di poter tornare presto alla mia famiglia e… tanti saluti al maggiore Giusto (mio comandante che la signora conosceva). Nel partire la vidi salutare con la mano fuori dal vetro, sorridendo». Dopo il lieto incontro e la fatica del portaordini, il percorso di guerra di Armando Levis continuò. Nel dicembre del 1941 è con il battaglione Ivrea in Montenegro: «La guerra in quelle terre balorde è dura». I combattimenti si susseguono dalla Croazia all’Erzegovina, su e giù per i Balcani. «L’8 settembre siamo a Nixsi; dal centralino apprendiamo della capitolazione: ora bisogna sparare contro i tedeschi. Da partigiani combattenti continuiamo la nostra guerra. Gli spostamenti sono massacranti, le armi poche, la fame tanta e la speranza di tornare vivi si riduce sempre più».

    Prima i tedeschi lo fanno prigioniero, poi tocca ai partigiani di Tito che lo mandano a Gergei, in Macedonia, per rinforzare la linea ferroviaria. Continuano le marce senza fine poi un giorno i partigiani parlano chiaro: «Se Trieste alla Jugoslavia voi a casa, se no niente!». Undici mesi di supplizio. Poi, nel febbraio del 1947 rientrò in Italia, dopo essere stato imbarcato a Spalato per Ancona, dove «ci viene data la paga del soldato: 500 lire! Siamo ricchi sfondati! Per festeggiare niente di meglio di un fiasco di vino di cui non ricordiamo neppure più il gusto… ma un fiasco costa ben 250 lire…». Tornò a casa così il caporal maggiore Armando Levis, dopo dieci anni di naja e di guerra, raccontata oggi come una testimonianza storica.

    Renato Zorio