Dalla storia al mito

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    È un’immagine luminosa, di spiritualità senza limiti, di spazio e libertà quella che avevano i soldati chiamati a combattere in alta quota durante la Grande Guerra. Un’illusione che si frantuma con il trascorrere dei giorni, spazzata via dalle battaglie, dalla logorante vita di trincea. Ora la montagna è diventata nemica, madre matrigna. La battaglia dell’Ortigara è stato anche questo. A raccontarlo nell’aula intitolata a Ippolito Nievo, all’Università degli Studi di Padova, Mario Isnenghi, Paolo Pozzato e Diego Leoni abilmente intervistati e incalzati da Massimo Bernardini. «Appare una nuova figura di uomo-soldato – sottolinea Diego Leoni– ‘Quello che scende giù’. Terreo, animalesco, provato, irriconoscibile quasi». 

     

    Scrive in una lettera alla famiglia, Eugenio (Neno) Garrone, alpino dell’Exilles: “Dopo la giornata famosa di cui vi ho parlato, siamo venuti giù mezzo laceri, zuppi come pulcini, sudici di mota fin sopra i capelli. Io vorrei che qualcuno assistesse all’arrivo di un battaglione alpino in accantonamento di ritorno dalla prima linea: credo che lo spettacolo sarebbe molto istruttivo per tutti. (…) Le donne furono vivamente impressionate quando li videro scendere, molte scoppiarono a piangere. Non erano più uomini quelli. Le barbe e i capelli lunghi avevano fatto corpo con certi berrettoni e baveri di pelliccia, le parti scoperte del volto erano, come le mani, verniciate in nero da quel fumo unto delle lucerne a grasso, fatte con la Sipe”.

    Cade l’illusione di una guerra lampo, di una vittoria rapida ed emerge il mito degli alpini, della gente di montagna. È questo il contributo di Diego Leoni, autore de “La guerra verticale”, libro imprescindibile, vincitore del Premio “Mario Rigoni Stern” 2017. Un toccante impulso di umanità dopo la perfetta relazione sulle dinamiche della battaglia dell’Ortigara dal 10 al 25 giugno 1917, viste dalla parte austriaca e italiana, a cura di Paolo Pozzato, storico e ufficiale degli alpini.

    Pozzato ha analizzato i reparti impegnati e descritto l’applicazione della tattica di difesa elastica definendo l’Ortigara, un grande anticipo di Caporetto. Incalza Bernardini: «Come nasce il mito?», rivolgendosi a Mario Isnenghi. Gli alpini erano una specialità della fanteria numericamente modesta rispetto alla totalità dei mobilitati. Eppure la diaristica e la memorialista sia del primo sia del secondo conflitto, sono per lo più scritte da alpini, perché la guerra di montagna è più facile da raccontare, è più suggestiva, più romantica e questo ambiente, giocoforza, esalta le qualità del montanaro-alpino. Persino nelle sconfitte dove il combattimento è stato all’altezza, può residuare un senso di rispetto. «Il libro ‘Con me e con gli alpini’ di Piero Jahier è stato, sull’argomento, tra i miei preferiti – continua Isnenghi».

    Jahier evidenzia la grandezza degli umili come il protagonista, Luigi Somacal che non conosce la Patria, ma la durezza della vita sì e la accetta. Ecco che si delinea il ruolo della truppa, inconsapevole di ciò che avrebbe dovuto affrontare. «La filosofia di Cadorna era tenere all’oscuro l’esercito – risponde Paolo Pozzato – i soldati non dovevano conoscere gli obiettivi strategici, ma restare in attesa degli ordini che riguardavano la loro micro porzione di fronte». “È destino dell’ufficiale di plotone di non vedere e non sentire cento metri più in là del suo piccolo reparto. Senza carte topografiche, senza ordine di operazioni, senza un programma noto, cammina e va alla ventura. Vive tra i suoi cinquanta soldati, con loro e per loro; non conosce che loro, non si muove che con loro. Oramai, non arrivano più le notizie del mondo.

    Il regno delle conoscenze finisce a Campomolon, dove lo spartiacque separa le valli e la vita”, Diego Leoni risponde così, citando uno stralcio del diario di Luigi Gasparotto, fante della brigata Puglie. Sono esperienze di fatica, fame, freddo e sete, un accumulo di sofferenza traspare dai diari e dalle lettere dei soldati. «Il popolo quanto sapeva? All’opinione pubblica cosa arrivava? Considerato anche che gli unici mezzi di informazione erano i giornali» domanda Bernardini. «Dare il nome alle cose è ciò che di più importante bisogna fare, ma allo stesso tempo più difficile – risponde Isnenghi. La maggior parte dei militari finisce per vivere murato nella propria trincea, costretto a una visuale limitata. Se ampliamo lo spettro e guardiamo agli Alti comandi, nei momenti difficili quando è più importante comprendere i fatti, vediamo come Cadorna non sapesse cosa realmente stava accadendo a Caporetto il 24 ottobre 1917.

    «E i civili?» incalza Bernardini. «Metà della popolazione è analfabeta e si limita a guardare le figure del Beltrame su La domenica del corriere e Il corriere dei piccoli che raccontano i fatti con colorate illustrazioni. Nel 1916 nasce La tradotta che dipinge un mondo immaginario, un giornale di trincea confezionato per distrarre. A seguito della disfatta di Caporetto, i quotidiani di Padova non uscirono per due giorni. Gli spazi bianchi sanno parlare molto di più di quelli neri». Bernardini offre un ultimo spunto di riflessione: «Nell’anno di Caporetto, la reputazione degli alpini viene intaccata?». «Fino al 24 ottobre 1917 la guerra non aveva intaccato il mito degli alpini, tutt’altro – risponde Pozzato. I successi dell’esercito italiano sono legati alla montagna e agli alpini, si pensi all’Adamello, al Monte Nero, al Cauriol, al Rombon o al Cukla.

    E se c’è un refrain che si ripete, è proprio questo: i reparti che si arresero non furono alpini, anzi, gli alpini dopo Caporetto si distinsero ancora sul Grappa, sulle Melette e sull’Altopiano». Leoni attualizza la questione ed evidenzia come guardando alla società in cui viviamo in piena crisi politica, il mito degli alpini non possa che crescere. Chiude il professor Isnenghi: «Molti tra voi sono venuti qui oggi pensando di assistere a una conferenza sulla battaglia dell’Ortigara, sulle fasi, le strategie, le operazioni. In realtà tutto è rimasto incentrato sulla duplicità dei piani: non c’è solo un’Ortigara descritta con fatti precisi, ma c’è tutto quanto accade dopo, nei racconti, nella diaristica, nei raduni organizzati di anno in anno su quella montagna.

    È questa la vera Ortigara ». Al termine della conferenza che oltre a regalare spunti su cui riflettere e ragionare, ci ha consegnato una lucida ed esaltante figura dell’alpino definito “soldato-popolo”, mi è tornato alla mente un recente articolo apparso su Il Sole 24 ore che ci ricorda quanto la crisi economica che ha investito il nostro Paese nell’ultimo decennio, abbia diminuito il reddito mediano contribuendo ad aumentare la solitudine. Quasi a dire che la povertà ci rende soli, la cultura no. È dunque fondamentale promuovere iniziative culturali come queste, per rinsaldare lo spirito della grande famiglia alpina anche in vista del centenario dell’Associazione nel 2019.

    Mariolina Cattaneo