Dalla California per l’Italia

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    Sul fronte dell’Adamello, tra l’8 e il 9 giugno 1915 il sottotenente veronese Paolo Emilio Castelli aveva avuto l’ordine di condurre due plotoni del battaglione Morbegno verso le ridotte nemiche ai Laghi di Presena. Si trattava di una marcia notturna difficile anche dal punto di vista alpinistico, senza guide esperte, con una tormenta di neve che congelava il sudore degli uomini che da ore, in fila indiana, avevano scavalcato i passi Lago Ghiacciato e Maroccaro a tremila metri di quota. Le nuvole basse agevolavano la marcia nascondendola alla vista del nemico attestato al rifugio Mandrone, posto poco più sotto.

    L’assoluto silenzio era ottimo alleato per cogliere di sorpresa il nemico nel catino coronato dal Castellaccio. La 44ª e la 47ª al mattino del 9 avrebbero dovuto aprirsi a ventaglio sul ghiacciaio verso gli obiettivi assegnati. Il sergente Erminio Giovanettoni era assorto nei suoi pensieri: la mente volava là, all’altro capo del mondo, al suo paese natale, Eureka, nel nord della California. La sua città era sorta nel 1860 dopo il massacro delle tribù indiane che vivevano da sempre in quelle terre. La Corsa all’Oro aveva richiamato moltissimi “visi pallidi”, fra i quali anche degli italiani. I suoi genitori si erano insediati laggiù, pescavano e andavano per legna. Erminio era cresciuto guardando agli infiniti orizzonti americani, serbando nel cuore il desiderio di esplorare la sua Patria, l’Italia. Partì, un giorno, e dopo quattro mesi di navigazione, sbarcò a Genova: un percorso controcorrente rispetto alla massa di emigranti che all’inizio del ’900 lasciavano la Patria.

    Erminio, svelto di mente e fisicamente prestante, era tanto sicuro della decisione intrapresa che si arruolò negli alpini. Quella notte i suoi galloni argentei spiccavano orgogliosamente sulla giubba grigioverde impregnata di ghiaccio. Improvvisamente le nuvole si sfilacciarono e il sole, nell’immenso ghiacciaio, fece scintillare d’azzurro i laghi, evidenziando le posizioni da conquistare. Il capitano Giuseppe Villani da Arona, comandante della 44ª compagnia, s’allertò, comprese il pericolo imminente: le colonne erano scoperte alla mercè del fuoco nemico. Nemmeno il tempo per fiatare, e cadde il primo alpino. Il ta-pum riecheggiò lugubre nella conca, seguito da altri colpi che andavano a segno: la sorpresa era fallita, gli uomini individuati. Si diede ordine immediato di formare le squadre, cercare dei ripari e rispondere al fuoco. Anche la 47ª compagnia al comando del capitano genovese Guido Morelli di Popolo, subì la medesima sorte. I tiri dei fucili a cui si aggiunsero le granate d’artiglieria nemica, erano precisi: morti e feriti tingevano di rosso il candore del ghiacciaio.

    Il caporalmaggiore Carlo Geninazzi da Albogasio (Como), cadde colpito in fronte, così come i sottotenenti Giuseppe Pettorino da Gattinara (Novara) e Raimondo Arrigoni da Bellano (Como). Fu un massacro che durò ore, poi finalmente il tenente Felice Comune da Torino assunse il comando dei due plotoni rimasti senza ufficiali perché feriti e annunciò l’ordine di ripiegare. Il trombettiere Giuseppe Urio da Moltrasio (Como), benché ferito due volte, ebbe il fiato per suonare la ritirata. Si disse che quel suono riecheggiò fino al Passo del Tonale. Poco prima del ripiegamento vennero uccisi altri due alpini intenti a medicare il capitano Villani, rimasto ferito alle gambe poco prima. E con i due soccorritori, morì anche il valoroso capitano centrato alla gola. Il tenente Rico Quandest dei Landsschützen invierà tempo dopo al comando del 5º Alpini il portafoglio del Caduto e la foto del cimitero di Vermiglio che accolse le 52 salme degli alpini pietosamente recuperate e inumate dagli austriaci. In quella giornata, si contarono 87 alpini feriti e 13 decorati al Valor Militare, mentre fra gli austriaci si ebbe un solo caduto: il caposquadra di sanità Mayr, colpito a tradimento dall’alpino che stava per soccorrere.

    Andrea Bianchi