Cosa resta di un’Adunata

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    Dice un mio amico alpino che l’Adunata più bella è sempre l’ultima. Ci arrivi pieno di aspettative. La voglia di reincontrare vecchi amici, fare conoscenze nuove, vedere luoghi sconosciuti, staccare la spina dalle preoccupazioni di tutti i giorni per immergersi in una ubriacatura di cordialità. Sfilare dentro un fiume umano dove nessuno è fuori posto, perché tra gli alpini un posto c’è per tutti, senza distinzioni di anagrafe, di salute, di cultura, di appartenenza geografica.

     

    L’unica carta d’identità richiesta è quella di un cappello vero e un sorriso da spartire. Poi l’ultimo raduno è il più bello anche perché rimette in gioco l’entusiasmo, la voglia di appartenenza e, soprattutto, il desiderio di ritrovarsi ancora, fra dodici mesi, se Dio vorrà. Scrivere dopo l’Adunata di Asti rischia di trasformarsi in un bagno di retorica o, più prosaicamente, in una lode sperticata che ha i contorni di un’alluvione di saliva. Ma è davvero difficile astenersi dal dire un grazie agli amici piemontesi. Organizzazione perfetta, in stile sabaudo, dentro una città bomboniera che ci ha fatto sentire partecipi della vita di un unico villaggio.

    Una grande famiglia, grazie anche alle misure contenute di una città di quelle dimensioni, per questo meno dispersiva e capace di creare calore e colore. Se mai dovessimo andare in cerca del neo, ancora una volta dovremmo fermarci alle note dolenti dei trabiccoli. Anche ad Asti qualcuno ha pagato con la vita la stoltezza dell’uso scriteriato di questi mezzi. Non era un alpino e non era alpino chi guidava il trabiccolo. Ma poi si sa come vanno a finire le notizie sui giornali: “Alpino morto, perché caduto…”.

    Non possiamo più permetterci che qualcuno si lavi la faccia prendendo a prestito il nostro cattivo esempio, facendo passare l’idea che saremmo noi gli istigatori di comportamenti beoti per gente dalle ridotte responsabilità intellettuali. Sappiamo che altri incidenti minori si sono verificati, sempre legati all’uso dei trabiccoli, anche se non hanno riportato conseguenze gravi. Ma basta un morto per gettare un’ombra sinistra su una manifestazione che dovrebbe aprirsi e chiudersi senza mettere in conto lacrime inutili.

    Per il resto l’Adunata si rivela ancora una volta una macchina da guerra dalle infinite potenzialità. Economiche per la città ospitante, sociali, per l’afflusso di persone coinvolte nei giorni di festa, ma anche morali e politiche. Non è un caso, e sia detto senza malizia, se i nostri sindaci sono particolarmente orgogliosi d’essere presenti in prima fila. Noi li ringraziamo per questa loro vicinanza, che quasi sempre è dettata da amicizia e stima vere, ma è innegabile la funzione di traino che essi attribuiscono alla nostra cordiale prossimità. Non ci vuole una particolare perfidia per capire che la grande famiglia dell’Ana costituisce un bacino di voti che potrebbe oscillare oltre il dieci per cento del totale degli elettori.

    Un numero che fa riferimento al target di persone che gravitano o simpatizzano con gli alpini. È chiaro che qui non si parla di ipotizzare una forza partitica, quanto di prendere coscienza delle nostre potenzialità, capaci di orientare il sentire sociale all’interno del Paese. Ritengo che un grande sforzo per conservare la nostra identità e le nostre convinzioni condivise, cercando di restare uniti ed evitando la rissosità sociale cui ci sta abituando certa cultura, anche politica, possano davvero diventare una boccata di ossigeno per tutti.

    A noi non è chiesto né di far politica, né di diventare esperti di chiacchiere. Per il nostro futuro e quello della società basta fare il bene e farlo bene. Con la gratuità che connota chi davvero ha il coraggio di chiamarsi ed essere un fratello nei fatti, oltre i rapporti di anagrafe. È l’unica cosa di cui il mondo ha bisogno, ed è l’unico modo per farlo respirare.

    Bruno Fasani

    Cosa resta di un’AdunataDice un mio amico alpino che l’Adunata più bella è sempre l’ultima. Ci arrivi pieno di aspettative.La voglia di reincontrare vecchi amici, fare conoscenze nuove, vedere luoghi sconosciuti, staccarela spina dalle preoccupazioni di tutti i giorni per immergersi in una ubriacatura di cordialità. Sfilaredentro un fiume umano dove nessuno è fuori posto, perché tra gli alpini un posto c’è per tutti, senzadistinzioni di anagrafe, di salute, di cultura, di appartenenza geografica. L’unica carta d’identitàrichiesta è quella di un cappello vero e un sorriso da spartire. Poi l’ultimo raduno è il più bello ancheperché rimette in gioco l’entusiasmo, la voglia di appartenenza e, soprattutto, il desiderio di ritrovarsiancora, fra dodici mesi, se Dio vorrà.Scrivere dopo l’Adunata di Asti rischia di trasformarsi in un bagno di retorica o, più prosaicamente,in una lode sperticata che ha i contorni di un’alluvione di saliva. Ma è davvero difficile astenersidal dire un grazie agli amici piemontesi. Organizzazione perfetta, in stile sabaudo, dentro una cittàbomboniera che ci ha fatto sentire partecipi della vita di un unico villaggio. Una grande famiglia,grazie anche alle misure contenute di una città di quelle dimensioni, per questo meno dispersiva ecapace di creare calore e colore.Se mai dovessimo andare in cerca del neo, ancora una volta dovremmo fermarci alle note dolentidei trabiccoli. Anche ad Asti qualcuno ha pagato con la vita la stoltezza dell’uso scriteriato di questimezzi. Non era un alpino e non era alpino chi guidava il trabiccolo. Ma poi si sa come vanno afinire le notizie sui giornali: “Alpino morto, perché caduto…”.Non possiamo più permetterci che qualcuno si lavi la faccia prendendo a prestito il nostro cattivoesempio, facendo passare l’idea che saremmo noi gli istigatori di comportamenti beoti per gente dalleridotte responsabilità intellettuali. Sappiamo che altri incidenti minori si sono verificati, semprelegati all’uso dei trabiccoli, anche se non hanno riportato conseguenze gravi. Ma basta un mortoper gettare un’ombra sinistra su una manifestazione che dovrebbe aprirsi e chiudersi senza metterein conto lacrime inutili.Per il resto l’Adunata si rivela ancora una volta una macchina da guerra dalle infinite potenzialità.Economiche per la città ospitante, sociali, per l’afflusso di persone coinvolte nei giorni di festa, maanche morali e politiche. Non è un caso, e sia detto senza malizia, se i nostri sindaci sono particolarmenteorgogliosi d’essere presenti in prima fila. Noi li ringraziamo per questa loro vicinanza,che quasi sempre è dettata da amicizia e stima vere, ma è innegabile la funzione di traino che essiattribuiscono alla nostra cordiale prossimità. Non ci vuole una particolare perfidia per capire che lagrande famiglia dell’Ana costituisce un bacino di voti che potrebbe oscillare oltre il dieci per cento deltotale degli elettori. Un numero che fa riferimento al target di persone che gravitano o simpatizzanocon gli alpini. È chiaro che qui non si parla di ipotizzare una forza partitica, quanto di prenderecoscienza delle nostre potenzialità, capaci di orientare il sentire sociale all’interno del Paese.Ritengo che un grande sforzo per conservare la nostra identità e le nostre convinzioni condivise,cercando di restare uniti ed evitando la rissosità sociale cui ci sta abituando certa cultura, anchepolitica, possano davvero diventare una boccata di ossigeno per tutti. A noi non è chiesto né di farpolitica, né di diventare esperti di chiacchiere. Per il nostro futuro e quello della società basta fare ilbene e farlo bene. Con la gratuità che connota chi davvero ha il coraggio di chiamarsi ed essere unfratello nei fatti, oltre i rapporti di anagrafe. È l’unica cosa di cui il mondo ha bisogno, ed è l’unicomodo per farlo respirare.Bruno Fasani