Cosa c’è dietro a una Adunata?

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    Una nuova Adunata. Perché? Che senso ha riunire una folla oceanica di alpini e quali obiettivi si propone? Sembra perfino sfacciato porre queste domande a voce alta. Ma provate a immaginare che, a bruciapelo, qualche cronista malizioso vi facesse questa stessa domanda nei giorni in cui saremo gioiosamente radunati per le strade di Treviso. Non si tratta di sottovalutare l’intelligenza e la sensibilità degli alpini. 

     

    Il fatto è che quasi sempre il ripetersi delle cose induce all’abitudine, che fa perdere di vista il perché si fanno. Soprattutto quando l’immaginario collettivo rischia di trasformare un avvenimento così importante in una manifestazione folcloristica. Ci sta anche il colore della festa, è vero. Ci sta l’allegria, con qualche calice in più del solito, ci sta l’indotto economico per la città ospitante… Ci stanno tante cose, compreso l’affetto della gente per l’Ana, l’associazione più amata dagli italiani, che, nella mitologia popolare, fa degli alpini una categoria prediletta.

    Ci stanno tante cose dietro a una Adunata, ma due spiccano sulle altre, che non vanno perse di vista. Monte Ortigara, Cortina d’Ampezzo, Trento, Aosta, Passo del Tonale-Adamello, Udine, Rifugio Contrin… Sono i nomi delle sette località in cui si svolsero le prime Adunate a partire dal 1920. La topografia non consente di barare, perché dietro a questi nomi c’era il calvario di chi aveva pagato con la vita il prezzo della speranza per un’Italia migliore.

    Radunarsi era un debito di riconoscenza verso chi era caduto, che si accompagnava al senso del dovere nel continuare a tenere vivi i valori per cui quei fratelli erano morti. Le battaglie si combattono al fronte e si combattono nella vita e smettere di lottare, siano tempi di guerra o tempi di pace, è pur sempre una forma di diserzione.

    Anche oggi l’indifferenza al bene comune, in questo continuo ripiegamento individualistico, può essere una tentazione. Ma cedervi è diserzione. Da cittadini e da uomini. Si va all’Adunata non per la nostalgia di incontrarsi, ma per la disponibilità ad essere protagonisti dentro il tempo in cui ci è dato di vivere. Facendo quello che uno sa e può fare, poco o tanto che sia, ma senza mettere le mani in tasca. Ma un’adunata di alpini, in congedo e in armi, è anche un colpo di spugna sui rifiuti culturali sotto cui è stato seppellito un articolo fondamentale della Costituzione, l’articolo 52, che recita esattamente così: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

    Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici”. Era l’inizio del 2000 quando certa politica, figlia matura di un Sessantotto che puntava a mettere fiori nei cannoni e a fare l’amore e non fare la guerra, decise che un anno di naja era un anno perso. La incartarono per bene quella polpetta, facendo credere che un disimpegno su questo fronte sarebbe stata una conquista del progresso. Sono passati pochi anni da allora.

    La scienza e la tecnica hanno fatto passi da giganti ma, sul piano umano, nuove prigioni culturali e tecnologiche hanno ingabbiato l’animo e il futuro di tanti giovani. Divertirsi da morire, recitava uno slogan di qualche tempo fa, dove morire non sempre era solo una metafora. È retorica chiedere di tornare a rendere obbligatorio il servizio militare? È cultura di Destra come sostiene qualcuno? Lo vadano a chiedere alla Svezia, dove dal 2018 fare la naja è tornato obbligatorio. Vadano a chiedere il perché, prima che siano i fatti ad obbligarci a farlo anche dalle nostre parti.

    Bruno Fasani