Con don Gnocchi Milano ha ritrovato il suo antico cuore

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    Guarda le fotoPiazza Duomo è un mare di folla in attesa. È rivolta verso corso Vittorio Emanuele da dove sta giungendo, fra due siepi umane, l’urna coperta con il corpo di don Carlo Gnocchi, portata dagli alpini e accompagnata da canti che si fanno sempre più vicini. Il colpo d’occhio, l’atmosfera d’attesa e di devozione sembrano far tornare Milano indietro di mille anni, quando ai benefattori della città venivano tributati funerali con grande e spontaneo concorso di cittadini d’ogni ceto: manifestazioni di riconoscenza che si trasfiguravano in momenti di alta e corale spiritualità.

    La liturgia prevedeva una processione regolata da una regia secolare con la componente di chierici, presbiteri, prelati, monsignori e infine l’arcivescovo; con canti e preghiere lungo il percorso che finiva in Duomo, fulcro della città, dove si piangevano sciagure, si pregava per scongiurare la peste, si festeggiava lo scampato pericolo o una vittoria. L’eredità liturgica di Ambrogio, di Ansperto e Ariberto, indignus archiepiscopus, come volle fosse scritto accanto alla sua firma; parole pronunciate anche durante la beatificazione di don Gnocchi dal cardinale Tettamanzi, testimonianza d’una continuità spirituale, di umiltà e di servizio nella Chiesa. Con don Gnocchi Piazza Duomo è stata percorsa dal suo antico spirito e Milano ha ritrovato il suo cuore.

    Né potrebbe essere altrimenti con questo consigliere spirituale dei giovani, poi cappellano volontario in Grecia e in Russia ( un prete non può non esserci dove si muore ), che fece suo scopo di vita e di missione ( la mia cambiale con Dio ) il servizio all’uomo, nella tragedia immane della guerra, con gli alpini morenti, gli orfani, i mutilatini, gli ammalati terminali, i poveri. Pellegrino dell’infinito, che diede attraverso l’amore per i più umili la sua testimonianza di fede e di carità.

    Tutto questo gli alpini lo avevano capito, tanto da considerarlo santo sin dalla sua morte, avvenuta il 28 febbraio del 1956. Don Gnocchi aveva disposto che le sue cornee fossero trapiantate su due suoi ricoverati ciechi: Silvio Colagrande e Amabile Battistello. Saranno proprio costoro a togliere il drappo che ricopriva l’urna di don Gnocchi mentre calava lo schermo bianco che nascondeva alla vista la gigantografia del Beato.

    Alle nove del mattino piazza Duomo accoglie cinquantamila persone (non meno di quindicimila alpini, compreso un contingente in servizio) quando l’urna, portata a spalla dagli alpini viene trasferita dalla chiesa di San Bernardino alle Ossa lungo corso Vittorio Emanuele fino in piazza Duomo. Precede il nostro Labaro, scortato dal vice presidente vicario Marco Valditara e da tutto il Consiglio Nazionale. Segue uno stendardo di don Gnocchi e quindi un migliaio fra alpini, chierichetti, membri della Fondazione don Gnocchi con il presidente mons. Bazzari, prelati e sacerdoti della diocesi.

    L’urna è ancora coperta dal drappo, viene portata attraverso la piazza e infine sistemata sul sagrato, dove era stato allestito l’altare. Ai lati, trasformati in presbiterio, prendono posto l’arcivescovo mons. Angelo Amato, prefetto della congregazione dei Santi e rappresentante di papa Benedetto XVI, sedici vescovi e duecento sacerdoti della diocesi, con alcuni cappellani militari. Il colpo d’occhio è imponente. Il coro ANA della sezione di Milano intona Stelutis alpinis (il canto che lo stesso don Gnocchi, in punto di morte, aveva chiesto che fosse esguito al suo funerale) e l’atmosfera si fa commovente.

    Un grande schermo consente di avere primi piani delle riprese che la Rai sta mandando in onda. I canti religiosi sono eseguiti dalla Cappella musicale del Duomo e dai chierici del seminario diocesano. Il rito della beatificazione precede la S. Messa officiata dal cardinale Tettamanzi. È il momento che tutti aspettano. Monsignor Ennio Apeciti, responsabile diocesano per le cause dei santi e postulatore del processo di beatificazione legge la richiesta che si proceda alla beatificazione. Poi è la volta di monsignor Angelo Amato, che legge la formula che si inizia con Noi, accogliendo il desiderio del nostro fratello Dionigi cardinale Tettamanzi… avuto il parere della Congregazione delle cause dei santi… concediamo che don Carlo Gnocchi d’ora in poi sia chiamato Beato e che si possa celebrare la sua festa nei luoghi e secondo le regole stabilite dal diritto di ogni anno il 25 ottobre .

    Cade il velo che copriva la gigantografia sulla facciata del duomo, viene scoperta l’urna, all’interno della quale il corpo di don Gnocchi appare praticamente intatto, il rosario fra le mani, il viso smunto nel pallore della morte ma sereno. L’applauso si leva dalla piazza come un rito liberatorio, dopo tanta attesa di questo momento. È il compimento di tante speranze di alpini, invalidi, malati, giovani, è la rivincita degli umili e dei semplici, dell’Italia perbene. Quindi inizia la Messa celebrata dal cardinale, è solenne, intercalata da canti, le letture sono in rito ambrosiano, retaggio di Sant’Ambrogio, invariato da allora.

    All’omelia, le stupende, straordinarie parole del cardinale Tettamanzi. Parla della gioia spirituale, del richiamo forte per ogni uomo a riscoprire la vocazione alla santità, che è il disegno di Dio. Beatificando don Carlo la chiesa dichiara che il desiderio di farsi santo è stato il sentimento dominante del suo cuore e insieme il principio fecondo della sua comunione con Dio e la sua infaticabile attività di servizio dell’uomo.

    Don Carlo, inquieto cercatore di Dio in ogni soldato ferito, in ogni bimbo, in ogni mutilatino, in ogni donna offesa dalla violenza, nel malato, con una carità che tende la mano alla giustizia, avendo come criterio la centralità della persona. Ecco perché don Carlo è ancora attuale oggi ed è calato nel futuro. Anche mons. Amato ha voluto salutare, al di là dell’ufficialità del rito, quanti erano raccolti in piazza Duomo, ricordando le parole dell’allora cardinale Montini rivolte agli alpini, reduci di Russia: Voi tutti eravate eroi, ma don Gnocchi, in più, era anche santo .

    A mezzogiorno il collegamento con piazza San Pietro dove il Papa, dopo aver parlato del suo viaggio in Africa ha rivolto il suo saluto ai fedeli in piazza Duomo; ha ricordato l’attività di don Gnocchi educatore dei giovani, cappellano degli alpini in Russia, la sua opera di carità come restauratore della persona umana . Ed ha concluso dicendo: Faccio mio il motto di questa mattina: accanto alla vita, sempre . La celebrazione era davvero finita. L’urna, questa volta scoperta, è stata ripresa a spalla dagli alpini e, preceduta dal nostro Labaro e dal corteo che l’aveva accompagnata in piazza Duomo, è stata portata nella chiesa di San Sigismondo, accanto alla basilica di Sant’Ambrogio, dove per due giorni sarebbe rimasta esposta al pellegrinaggio dei fedeli.

    Resta storica l’immagine dell’urna portata a spalle dagli alpini che passa tra la folla. Impossibile non collegarla a un’altra immagine, quella del cappellano della Tridentina raccolto dalla neve e caricato su una slitta, verso la salvezza. Tempi lontani, ma sembravano invece vicinissimi quando gli alpini trasportavano sulle spalle il loro cappellano verso la beatitudine.

    Beato?Ci dev’essere uno sbaglio, pensano gli alpini. Santo. Ecco, così va meglio.

    Giangaspare Basile

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    Pubblicato sul numero di novembre 2009 de L’Alpino.