Colori d’artista

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    Dalle stanze tetre di San Giacomo alla Tomba alle gallerie d’arte di mezzo mondo. New York, Madrid, Chicago, Philadelphia, Milano e Sidney. L’opera di Carlo Zinelli negli ultimi anni ha conosciuto il successo. Un successo che lui, morto nel 1974 all’ospedale del Chievo, ha soltanto potuto sfiorare. Pittura istintiva, uno dei più importanti esponenti dell’Art Brut descritta e fatta conoscere da Jean Dubuffet. Carlo Zinelli era un “matto di guerra”. «Schizofrenia paranoide» riportava la diagnosi con la quale venne definitivamente ricoverato all’ospedale psichiatrico di San Giacomo alla Tomba di Verona, il 9 aprile 1947.

     

    Dieci anni di durissimo isolamento, prima della scoperta che gli rivoluzionò la vita: la pittura. Non solo espressione artistica, ma anche terapia. Scriveva sul pavimento della sua stanza, dipingeva anche così. E gli infermieri che lo minacciavano, come rievocato recentemente dallo spettacolo teatrale di Alessandro Anderloni a lui dedicato (Carlo, l’ombra e il sogno): «Carlo varda che me toca ligarte, Carlo, Carlo, vuto che te liga? Carlo, Carlo, l’emo apena netà il pavimento. Carlo, Carlo, Carlo».

    Non potevano immaginare, quegli inservienti, di trovarsi di fronte a un vero artista. Per loro era un paziente come tutti gli altri, un matto. Nato nel 1916 a San Giovanni Lupatoto, sesto di sette figli, Zinelli rimase orfano di madre a soli tre anni. Un’infanzia trascorsa a sorvegliare il bestiame di una famiglia contadina del luogo, poi a 18 anni, nel 1934, il trasferimento a Verona per lavorare al macello comunale.

    Nel 1936, la prima esperienza militare: venne arruolato nel battaglione Trento dell’11º reggimento alpini. E tre anni dopo, nel 1939, partì da Napoli come volontario per la guerra civile spagnola. Un evento che lo segnò per tutto il resto della sua vita. Al fronte resistette soltanto due mesi: troppo dura la realtà del conflitto. Troppi i traumi da sopportare per uno spirito libero come il suo. Venne rimpatriato velocemente, con gravi turbe psichiche. Tra il 1941 e il 1947 entrò e uscì continuamente dall’ospedale: combatté con la malattia a colpi di elettroshock e trattamenti di insulina. Poi, quel 9 aprile del 1947, a guerra finita, venne ricoverato definitivamente in manicomio. «Scendere i padiglioni del manicomio, era come scendere i gironi dell’inferno », ricorda Anderloni sul palco.

    L’alpino Zinelli si isolò dal resto del mondo, scoprendo la passione innata per la pittura. Una forma d’arte che gli consentiva di superare i traumi vissuti. E nel 1957, grazie all’interessamento del professor Mario Marini e dello scultore scozzese Michael Noble, tela e pennello diventarono finalmente il mezzo d’espressione della sua personalità. Oltre duemila opere realizzate in poco meno di 18 anni di attività.

    La svolta nel 1964, con Vittorino Andreoli: le sue opere vennero presentate a Debuffet e si guadagnarono l’attenzione di critici e scrittori del calibro di Buzzati, Moravia, Cederna e Trucchi. E a chi gli chiedeva cosa rappresentasse la sua opera, rispondeva secco: «Se no te si cretino, guarda!».

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