Adesso tocca a noi

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    Tra tanti eroi alpini la Chiesa ora annovera un altro Beato. È avvenuto a Vigevano, in mezzo alle risaie della Lomellina, tra Milano culla dell’Ana, Borgolavezzaro dove Cesare Ricotti Magnani volle gli “Alpini” e ad una manciata di chilometri da Gravellona dove l’Ana ha costruito una casa domotica per i reduci alpini inabili, ora affidata a Luca Barisonzi. Gli alpini sono ovunque, dove ci sia tenacia o operosità. Lo vediamo arrivando in questa terra dove l’acqua riaffiora dalla falda freatica del Monte Rosa e da invadente e ostile, gestita e incanalata è resa amica e risorsa in un reticolato di risaie e canali. Ma Teresio Olivelli è nato a Bellagio, dove la sua famiglia di Zeme Lomellina si era trasferita per lavoro, sino a quando tornò in Lomellina, a Mortara.

     

    Luoghi che uniti a quelli che videro le sue gesta, da “grande”, ricordano Olivelli con strade, piazze, scuole, segno di un ricordo profondo e grato tanto da portarlo alla Beatificazione. È morto a soli 29 anni in un campo di concentramento; non ha lasciato nessun Ordine, nessuna Fondazione, nessun Ente che potesse supportare la causa: è rimasta la gente, il popolo italiano, che ne ha serbato memoria grata attraverso noi alpini e l’Azione Cattolica.

    Olivelli bambino è buono e sincero, studente vivace e intellettualmente predisposto, tanto che prestava il suo acume per aiutare i suoi compagni, comportamento che caratterizzerà tutta la sua vita. Nasce nel 1916 e cresce sotto il fascismo. Prima di tutto è Cristiano e il fascismo è quello che ha fatto i Patti Lateranensi e quello che prometteva di garantire la professione religiosa, il fascismo che sembrava portare progresso e cultura al popolo.

    Olivelli entrò nel fascismo, ma sempre da cattolico, pensando al bene collettivo ma facendo gli esami di maturità con lo stemmino dell’Azione Cattolica, anche se era proibito o quantomeno inopportuno. Primeggiò in Università: dialettico impareggiabile… ma raccoglieva le arance avanzate in mensa per portarle ai poveri di Pavia. Si laurea, vince il Littorio su un tema scottante, la supremazia razziale. Ma in sintesi sconfessa l’idea che uno è superiore per nascita, ma lo diventa per cultura, per affermazione di personalità. Uno tosto questo Olivelli.

    Lo chiamano a 22 anni all’Ufficio Cultura del Partito Nazional Fascista: sistemato? Lui no, lascia tutto e pur non condividendo “l’aggressione” alla Francia, con gli esiti della guerra incerti, decide di arruolarsi laddove c’è più bisogno. Poteva defilarsi, ma lui no: negli alpini e volontario in Russia. Ma non ci va in camicia nera, né tracotante e fiero: va dove i suoi fratelli italiani sono più esposti e non li può lasciare soli. Impara il russo, passando dalla Polonia e dall’Ucraina, “bisticcia” con i tedeschi che non capivano quell’Ufficiale che aiutava e fraternizzava con persone ritenute inferiori: per lui erano fratelli come gli altri. Al fronte si adopera per “i suoi alpini”, pensa ai ricoveri ma porta speranza e conforto con la preghiera. Non era prete Olivelli ma portava Cristo con sé e questo si capiva. Siamo nell’ottobre ’42, il tempo scandisce il destino.

    Si abbandonano i ricoveri, ci si riposiziona in un punto scoperto e ostile. Tutto inutile: l’ordine di ripiegamento, la ritirata, il si salvi chi può, ognuno per sé… non per gli alpini. L’Armir era fatto da tanti italiani di cui una parte alpini: loro sono stati gli ultimi a partire, ma con la compostezza e con la forza che solo il reparto ti sa dare. Alcuni reparti alpini sono tornati in armi, altri sono caduti in imboscate causate da errate informazioni, altri sono tornati come hanno potuto. Teresio Olivelli alla ritirata non può abbandonare i suoi alpini feriti, decide di portarseli dietro, ne trova altri di un’altra batteria, ne fa una piccola carovana. Passa da Nikolajewka e li riporta a casa. I sopravvissuti raccontano: “Io non credo, ma se ci sono i Santi, Olivelli è un Santo”. Venti giorni è durata la ritirata, 300 km è stato il percorso fatto a temperature inumane.

    Finalmente l’Italia, la quarantena a Tarcento, vicino a Udine. Il tempo ti porta a rimettere ordine alle idee e capire che questo Fascismo ha esaurito la speranza. Nel frattempo viene nominato rettore del suo Ghisleri, l’aspirazione della sua vita. Ma lui sceglie ancora i suoi alpini. Ma come: capisci che ormai la causa è persa, hai raggiunto ciò che ambivi e torni con gli alpini? «Tra questi scarpini chiodati, nei canti davanti al fuoco, lì c’è l’Italia». È il fascino degli alpini: Teresio Olivelli, responsabile dell’Ufficio Cultura del Pnef, amico di Bottai, di Padre Gemelli, delle persone culturalmente più di spicco in quel momento, il più giovane rettore nella storia italiana, preferisce gli alpini, il suo reparto! Arriva l’8 settembre e non fu viltà per il popolo italiano, ma fu ritrovare dignità. Fu fuga dai sotterfugi e dire ai nazifascisti che piuttosto che accettare di continuare la guerra con loro era meglio la deportazione in Germania. No, gli italiani nei momenti difficili capiscono cos’e giusto e non era con i nazifascisti. Anche Olivelli dice no e lo portano in Austria a Salisburgo e scappa sei volte, ma non per sopravvivere, ma per tornare in Italia a dare una mano.

    Forte questo Olivelli! E ce la fa, a piedi e lo accoglie a Udine una famiglia di un suo compagno di prigionia. Gli dicono fermati, sta qua tranquillo, gli danno documenti falsi… li usa, ma per tornare a contribuire alla rinascita dell’Italia. Sceglie Brescia, sceglie i partigiani cattolici. Siamo alla fine del ’43, inizi ’44. Si presenta dicendo «se posso dare una mano», diventa il “cursore”, agente di collegamento tra i gruppi della Lombardia. Diventa ideologo, fonda il giornale “Il Ribelle”. Invita a non odiare il nemico, esorta all’amore, auspica il miglioramento interiore che porta alla vittoria. Il tempo incalza: scoperta la tipografia di Brescia, va a Milano. Lì in una notte scrive la preghiera “Signore facci liberi” che ora tutti noi chiamiamo “la preghiera del ribelle”. Aiuta con la Oscar gli ebrei, i perseguitati a fuggire oltre le Alpi e in questa azione viene arrestato e portato a San Vittore. E lì cosa fa? Per prima cosa perdona ufficialmente il delatore, organizza dei gruppi di preghiera (nel frattempo il fascismo aveva cambiato idea sull’utilità della Chiesa avversandola), invita genitori, amici a rinunciare a qualsiasi intercessione in suo favore tramite le sue influenti conoscenze. Viene portato a Fossoli, poi Gries vicino Bolzano, ora famosa per i suoi vitigni, una volta ultima tappa per la Germania: il viaggio senza ritorno.

    Mi perdonerete: mi sono sempre chiesto perché chi si professava depositario della coerenza italiana mandava gli oppositori in Germania anziché “gestirli” a casa propria? Mah! Flossenbürg, Hersbruck, tappe dolorose di un calvario in cui Teresio avrebbe potuto salvarsi ma per aiutare i suoi fratelli è dove si è immolato. Fece di tutto in quei campi: rifiutò il ruolo di interprete per curare i feriti e gli ultimi, insegnava agli altri come superare test per accedere a ruoli meno pesanti, si privava delle sue razioni in favore dei più bisognosi, pregava per i morti e confortava i vivi, intercedeva attirandosi le ire dei kapò… In quei posti volevano annientare l’uomo: lui nel gennaio del ’45 ha testimoniato che l’amore vince ogni cosa, dando speranza al destino stesso dell’uomo. Morì intercedendo per un ragazzo ucraino, attirandosi le ire di un kapò che lo ferì mortalmente.

    Oggi abbiamo beatificato Teresio Olivelli a cui la Repubblica Italiana attribuì una Medaglia d’Oro al Valor Militare. Altri tre Beati sono alpini, ma erano sacerdoti. Lui era uomo di fede saldissima, ma laico, che nell’esperienza alpina si trasfigurò sublimando il suo animo cristiano. Visse la sua vita, combatté le sue battaglie, mettendosi sempre in gioco in prima persona, rinunciando alla sicurezza, al potere, spendendosi per il prossimo, ponendo il bene dell’Italia sempre al primo posto. Beato per ringraziare chi come lui si è sacrificato per noi, per darci un futuro allora insperato. A noi il compito di non rendere vano il loro sacrificio. A noi il compito di raccontare ai nostri figli l’orrore della guerra e di non ricaderci. A noi il compito di dire che siamo tutti uguali e solo il nostro comportamento e la nostra cultura ci rende differenti.

    “Vorrei che questa mia non fosse la biografia di Olivelli, ma solo l’inizio di un’altra, che per se stesso nel silenzio del suo spirito, qualcuno magari anche per gli altri, farà più complessa e profonda”. Così scriveva nella sua prefazione Alberto Caracciolo nel suo libro “Olivelli”, La Scuola Editrice, Brescia, edito nel 1947 (sì avete letto bene, 1947, settant’anni fa).

    Nella cerimonia di beatificazione ci siamo sentiti italiani animati dallo stesso spirito, non inerti, ma vivi, operosi, pronto a mettersi in discussione per quell’Italia “severa e generosa” auspicata da Olivelli. Lo abbiamo proclamato Beato: diventa un impegno per noi alpini non più in armi a scrivere con la nostra vita il seguito di quella di Olivelli. Adesso tocca a noi.

    Renzo De Candia
    decandiarenz@gmail.com