A proposito di alpini…

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    Sono solito dire che un giorno dovremo rendere conto dello spreco di carta che connota il nostro tempo. A dispetto del digitale, che dovrebbe garantirne un largo risparmio, siamo sommersi dalla carta e dalle carte. Provate a fare un trasloco e dover cambiare indirizzo di residenza, magari in zona Ztl, denunciare gli spazi nuovi legati alla raccolta rifiuti, subentri di allacciamenti… e poi ditemi. Vi sentirete travolti dalla burocrazia, travolti da una valanga di carte.

     

    Anche in fatto di riviste, bollettini, giornali e giornaletti non c’è molto da scherzare. Non esiste realtà, ente, associazione, circolo benefico che non abbia il suo giornalino. Si fa presto a dire digitale, Facebook, email, twitter, instagram… Vuoi mettere la carta? Quella la tocchi, la annusi, te la senti tra le mani. E poi lì ci vanno le foto, gli avvisi, le riflessioni. Te la giri e te la mescoli, con una percezione di concretezza che mette in moto tutta la sensorialità umana nella sua complessità. È su un giornalino di una parrocchia veneta che mi scappa l’occhio qualche giorno fa.

    Il parroco deve essere zelante, a vedere le tante attività che vi si elencano. E poi non devono mancare neppure “quattro schei”, come si dice da quelle parti. La carta è patinata, rigida e lucida, da sembrare tirata a cera. Grammatura pesante insomma, che non le avrebbe mai consentito di finire ritagliata e appesa al gancio di una qualche toilette d’altri tempi. C’è dentro un articolo che mi incuriosisce assai. Non porta firma, ma la psicologia che lo ispira è quanto mai clericale. “Alpini o cristiani” è il titolo che non lascia via di scampo. Mi colpisce quella “o”. In italiano si chiama congiunzione disgiuntiva. Della serie: o te o me, o bianco o nero, o sporco o pulito. Mi inquieto, ma procedo nell’indagine.

    Gongolo nel leggere le prime righe: «Oggi gli alpini sono, in una realtà come la nostra, la rappresentazione più fedele del cristiano di strada; si danno da fare per gli altri, gratuitamente e volontariamente; non vogliono pubblicità per le loro azioni; si rendono disponibili per chi è in difficoltà; animano la vita sociale, portano il sorriso, soprattutto agli ultimi; i loro valori sono quelli del cattolicesimo sociale, il rispetto, il dono, l’aiuto alle famiglie deboli, la comunità intesa come una grande famiglia. Di fatto, intesi nella loro globalità, incarnano l’invito alla carità, la Marta del racconto evangelico». Non ho parole. Un monumento così era da tempo che non lo contemplavo. Roba da scolpirlo su pietra. Poi però procedo e viene fuori il perché di quella “o” disgiuntiva.

    Strabuzzo gli occhi e mi chiedo se durante l’estensione del pezzo, l’autore non abbia avuto una piccola crisi depressiva. Magari una botta al ginocchio contro la gamba del tavolo o un attacco di gastrite per una cena allestita in modo un po’ maldestro. Scrive infatti lo zelante estensore: «Ma manca alla carità degli alpini la dimensione spirituale, manca la preghiera, manca la tensione verso Dio». E così anche «l’alpino non è un cristiano a tutto tondo… fa della sana protezione civile, ma di quella sterile, che non dà frutto. Una comunità viva è quella che riempie la chiesa».

    Precisato che l’Ana non è associazione confessionale, ma in essa c’è posto per credenti e non credenti, per appartenenti a confessioni religiose diverse, una domanda si impone su tutte: ma le chiese si svuotano perché gli alpini non vanno o non vanno sempre, o piuttosto perché c’è qualche rettifica da compiere in chi, per vocazione, dovrebbe fare in modo di riempirle? So che il fenomeno è complesso e non riducibile a qualche battuta, ma non è neppure lecito dare patenti di cristianesimo, giudicando arbitrariamente le coscienze, solo per nascondere qualche frustrazione professionale.

    Bruno Fasani