Gennaio 1943

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    Il 25 gennaio 1943 lunghe fila di uomini avvolti in brandelli di pastrani gelati, procedevano arrancando verso un orizzonte indefinito, seguendo l’ovest perché là, da qualche parte, c’era l’Italia. Non sapevano ancora che il giorno successivo avrebbero scritto una pagina importante nella storia del nostro Paese.

    Non si trattò di eroismo o di gloriosi fatti d’arme, piuttosto di umanità, di forza d’animo. Erano uomini mossi dal desiderio istintivo e disperato di vivere. Questo motore spinse i nostri soldati a fissare nella memoria collettiva il nome di Nikolajewka. Andarono incontro a quella giornata forse rincuorati dall’affacciarsi di un sole pallido: erano a Nikitowka da dieci giorni, il colonnello Giuseppe Adami scrive: “Concorre a ridare fiducia agli uomini il sole, l’assenza del vento, la temperatura alquanto mitigatasi, la frequente presenza ai lati della pista di isbe, la possibilità di trovare in esse in abbondanza pane, miele, uova, pollame, patate e rape. Gli alpini, dopo tanto digiuno, possono finalmente sfamarsi. Lo spirito si risolleva e le speranze si rinvigoriscono”.

    I quindici giorni della seconda metà di gennaio furono cruciali perché decisero le sorti di centinaia di uomini e delle loro famiglie in attesa. Sono raccontati in un rapporto ufficiale fatto a libro, corredato da fotografie, che porta la firma del colonnello comandante del 5º Alpini, Giuseppe Adami. Il Gruppo di Colombaro Corte Franca della Sezione di Brescia, tenutario di due copie di questo documento (con tutta probabilità redatto in tre copie oltre all’originale, come era prassi fare), ne ha fatto dono al colonnello Massimiliano Cigolini attuale comandante del 5º, in occasione dell’80º anniversario della battaglia di Nikolajewka. Leggendo le pagine, scorrendo le immagini alcune note, altre meno, la visione di quei giorni disperati si delinea chiaramente, anche attraverso una scrittura essenziale e realistica propria del gergo militare.

    “Il 26 gennaio 1943 segna una delle giornate più sanguinose ma anche delle più gloriose della divisione Tridentina; più che per tutti per il 5º reggimento alpini, il quale, coi due duri e decisivi combattimenti di Nikitowka e Nikolajewka, sostenuti a poche ore di distanza, in condizioni assolutamente sfavorevoli, ha saputo imporsi al rispetto di un nemico agguerrito e prevalente per uomini e per mezzi e tenere sempre alto il buon nome della Patria e la tradizione della Bandiera”. Queste parole si intrecciano con la memorialistica e la diaristica che oggi riempie gli scaffali delle biblioteche alpine.

    Scrisse Nuto Revelli, ufficiale degli alpini nel btg. Tirano, 46ª compagnia, Medaglia d’argento: “La strada per Nikolajewka era aperta. Nella tarda mattinata arrivò il generale Luigi Reverberi, il valoroso comandante della Tridentina, accompagnato dal colonnello Adami. Reverberi aveva 51 anni, era vestito come noi, con uno strano berretto di pelo alla russa. Stremato ma ancora combattivo ed energico, ordinò alla divisione di proseguire. Verso le 18, l’enorme colonna, superato convulsamente il trincerone della ferrovia, travolse la linea di resistenza sovietica e si gettò verso le isbe ancora difese da centri di fuoco nemici. Alle due di notte del 27 gennaio, con un grido che rimbalzò da un’isba all’altra, arrivò l’ordine di lasciare Nikolajewka. Riprendeva la ritirata verso ovest, verso la salvezza. A noi ufficiali toccò il compito più straziante: scegliere tra i feriti quelli da portare con noi, i meno gravi, per i quali v’era qualche speranza di salvezza.

    Uno dei migliori della 46ª, l’alpino Rinaldo Tironi, di 30 anni, valtellinese: ‘Tenente, tenente’ mi gridò. ‘Sono Tironi, non mi riconosce? Non mi abbandoni!’. Lo lasciammo nel freddo. Era una legge bestiale alla quale non potevamo sottrarci. Il 31 gennaio 1943 come straccioni, passammo davanti al generale Gariboldi, curvi, a gruppetti, con le coperte sulla testa. Ci guardò. Sfilavano i resti della sua armata. Con noi c’era anche suo figlio, sottotenente del 5º Alpini. Percorremmo altri 700 chilometri a piedi, sempre incalzati dai russi che stavano avanzando. Il 1º marzo raggiungemmo Gomel. Diciassette giorni dopo eravamo in Italia. La nostra tragedia era finita.

    Per andare in Russia, nell’estate del 1942 erano state necessarie duecento lunghe tradotte; per ritornare in Patria, nella primavera del 1943, bastarono 17 brevi convogli ferroviari. Nikolajewka fu una grande vittoria, la vittoria della disperazione. La battaglia venne combattuta e vinta dalla Tridentina, ma anche la Cuneense, la Julia e la Vicenza contribuirono con il loro sacrificio alla salvezza del grosso del Corpo d’armata alpino”. Ma non furono solo i combattimenti e il gelo russo a svuotare i soldati italiani d’ogni umana parvenza.

    In una relazione dell’ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano si legge: “La popolazione ucraina, per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe, fu sollecita nell’alleviare sofferenze, offrì da mangiare, vestire e possibilità di riposo ai soldati dell’Armir”. Come si comportarono i tedeschi? Dice la stessa relazione: “Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre nelle vetture coperte prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avioriforniti, mangiavano e fumavano allegramente. Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni, schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati e quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, spesso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra”.

    Non fu solo la guerra. Non furono solo il freddo e la fame. Questo è quanto i nostri soldati si portarono a casa, un fardello ben più pesante di una mutilazione. A settembre dello stesso anno, furono di nuovo costretti a scelte pesantissime, a volte fatali. Chi in montagna, chi in prigionia, chi inconsapevolmente dalla parte sbagliata, tutti esausti e stanchi di combattere. Alcuni fecero ritorno. E con questo peso dovettero convivere per il resto della loro vita.

    Mariolina Cattaneo